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Barbara Benedettelli

Pedofilia femminile, esiste e si deve dire

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Pedofilia, vittime maschili e pedofilia femminile.

L’associazione Telefono Azzurro, che rappresenta da quasi 30 anni un osservatorio prezioso delle problematiche di abuso su minori, nel 2015 ha svolto una ricerca sulle richieste di aiuto giunte alle sue linee telefoniche (19696 Centro Nazionale di Ascolto e 114 Emergenza Infanzia) e alla chat, nel periodo gennaio-dicembre.

Su entrambe le linee si evidenzia che, seppure la maggior parte delle vittime in generale sono di sesso femminile, quelle al di sotto degli 11 anni sono per lo più maschi (60,9% dei casi al 114 e 55,2% all’19696), trend in crescita rispetto all’anno precedente.

Le analisi sulle 102 richieste di aiuto che hanno riferito situazioni di abuso sessuale segnalati al numero telefonico 19696 (e alle linee chat) evidenziano una percentuale del 31,5% di vittime di sesso maschile, non solo in età inferiore agli 11 anni, ma anche oltre i 15, coinvolti in particolare in toccamenti (17,2%), sexting (10,3%), fellatio (10,3%), proposte verbali (6,9%), penetrazione anale (3,4%).

Per quanto riguarda la linea 114, su 136 abusi 23 sono perpetrati contro i maschi, prevalentemente in età tra gli 0 e i 10 anni. Anche qui sono coinvolti non solo dal punto di vista fisico, come toccamenti (34,04%), penetrazione anale (8,7%) o fellatio (4,3%), ma anche in situazioni in cui, per esempio, sono costretti ad assistere ad atti sessuali (8,7%).

Il ruolo delle donne non è secondario sia quando le vittime sono maschi, abusati dalla madre nel 12,3% dei casi, sia quando sono femmine, abusate dalla madre nel 3,7% dei casi.

Madri, dunque donne, come quella arrestata nell’ottobre del 2015 a Pescara, che abusava sessualmente del figlio di 5 anni scattando foto e video che poi divulgava in rete. O come quella condannata Gallipoli a 13 anni di carcere nell’aprile del 2016 insieme al marito, ritenuto però incapace di intendere e volere e inviato in una struttura psichiatrica. Gli episodi si sarebbero verificati fino al settembre del 2007.

I due avrebbero abusato sessualmente del figlio e della figlia minori di 10 anni. Sebbene i legali della coppia abbiano presentato ricorso affermando che il fatto non sussiste, il giudice ha ritenuto veritiere le testimonianze dei bambini.

Come si legge sulla rivista Profiling, i profili dell’abuso, l’idea che la donna diventi abusante esclusivamente all’interno del meccanismo di coppia, magari costretta dalla personalità maschile dominante, non è sempre veritiera, come nei casi appena esposti.

Non sono vittime innocenti neanche quelle madri che, pur non macchiandosi in prima persona del crimine, tacciono gli abusi da parte del partner per paura di essere lasciate.

Un comportamento vigliacco che le rende altrettanto responsabili. Si tratta di pedofilia passiva, altrettanto devastante per le vittime. La pedofilia femminile esiste, in tutto il suo orrore, e a perpetrarla sono soprattutto le madri. Ma anche educatrici, baby-sitter, insomma proprio le persone dalle quali ti aspetteresti solo un mare d’amore.

Donne, che per soddisfare le loro perversioni si danno anche al turismo sessuale in cerca di minori e, «poiché il rapporto sessuale con un ragazzo preadolescente è fisicamente difficile, le donne pedofile utilizzerebbero ormoni o droghe che, iniettati nei testicoli di bambini di 6-7 anni, permetterebbero che l’unione sessuale avvenga con il pieno soddisfacimento. Nonostante si sappia poco sulle conseguenze di queste iniezioni, sembra che il minore, a causa di un trattamento ormonale col fine di provocare l’ingrossamento del pene, rischi la propria vita».

Un fenomeno che dovrebbe essere reso noto al grande pubblico, attraverso campagne massicce di sensibilizzazione alle quali dovrebbe seguire una forte condanna sociale. Invece delle vittime maschili e delle donne capaci di perpetrare abusi sessuali non si parla mai. E allora il problema “non esiste”.

D’altra parte, l’ISTAT nell’indagine sulla violenza contro le donne inserisce anche la violenza sessuale al di sotto dei 16 anni, facendo rientrare così, più o meno direttamente, la pedofilia nel fenomeno della violenza di genere, che viene poi mediaticamente e politicamente tradotta in femminicidio.

Se seguiamo la stessa linea dovremmo inserire i minori abusati di sesso maschile nella categoria maschicidio. Aumenteremmo il numero di un fenomeno, dunque l’allarme sociale, in un esercizio mistificatorio che pare di moda. Ma sarebbe un errore che devierebbe l’attenzione da un flagello globale (la pedofilia) che ha cause proprie.

Direi invece che la pedofilia, che non si realizza solo in ambito domestico, ma che qui prevale, può essere considerata uno dei rami della violenza domestica. Che, lo ricordo, non colpisce solo le donne.

Tratto da “50 Sfumature di Violenza” (Cairo Editore), di Barbara Benedettelli

Il World Wide Web è anche una “maledizione”?

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Era il 6 agosto del 1991 quando il CERN pubblicò il primo sito Web della storia. Internet era solo un insieme di documenti statici, utilizzato da organizzazioni di difesa e comunità scientifica per condividere documenti. Il 30 aprile 1993 il CERN decise di mettere il WWW (World Wide Web) a disposizione del mondo, gratuitamente, dando il via alla più grande rivoluzione dell’era moderna: la rivoluzione digitale.

Da allora internet è diventato uno strumento del quale non possiamo fare a meno, specie quando si tratta di Social Network. Ecco che, ventotto anni dopo, precisamente il 4 ottobre 2021, un crash di Instagram, FaceBook e Whatsapp, ci pone di fronte a un dilemma shakespeariano: Essere o non essere?. O meglio: “Io ci sono, senza te?”, dove “te” non è una persona in carne e ossa, ma la rete di voci, immagini e suoni virtuali che popolano i nostri istanti.

Miliardi di persone al mondo sono entrate in panico a partire dalle 17 circa di quel lunedì nero che resterà nella storia. Ci sono state conseguenze a tutti i livelli: sociali, commerciali, economici. Umani. Anni di pensieri, immagini, contatti, comunicazioni, smarriti per ore. Le nostre esistenze digitali – e non solo – bruscamente interrotte. Allora la risposta alla domanda “Io ci sono, senza te?” la dobbiamo trovare.

Se da una parte i social media rappresentano uno spazio che può farci sentire meno soli, che ci permette di chiedere aiuto, di lavorare, di condurre campagne sociali, di restare nel mondo, se pur virtuale, durante un lockdown, dall’altro lato ci sono zone d’ombra che non possiamo sottovalutare, a partire dall’Internet Addiction Disorder, la dipendenza da internet.

Mi viene in mente l’Homo Videns incapace di un’attività simbolica che distanzia l’uomo dall’animale e dà senso e valore alle cose oggettive del mondo, di cui parla il politologo Giovanni Sirtori. Nel down dei social di ottobre non abbiamo cercato la voce dell’altro al telefono o il contatto fisico. Ci siamo istericamente riversati su altri social. Come se l’Io, nella realtà oggettiva, fosse assente, disintegrato, inesistente. Come se fosse percepito concreto solo nella realtà virtuale del web, dove, però, ogni limite fisico, morale, filosofico, è superato. A dire:

fino a che non condivido, non solo non riconosco me stesso, ma neanche quello che accade di fronte ai miei occhi. Che non è solo immagine da trasmettere, ma esperienza, in alcuni casi tragedia che viene catapultata senza pietà in rete per un pugno di like. Obiettivo: alimentare l’ego-ismo. Posto, ergo sum. Lo stesso meccanismo di chi fa mille battaglie sui social, e che poi, quando è il momento di agire, di andare in piazza, di esprimere un voto, scrive: “Ci sono con il cuore” (con tanto di icona). La coscienza è salva. La realtà oggettiva no.

Ma l’identità digitale scollata da quella reale e dalla realtà non è l’unico problema su cui riflettere. Internet nel 1993, quando è nato, era uno spazio libero. Oggi lo paghiamo a caro prezzo. La moneta di scambio sono i nostri dati personali e la libertà. Sul web facciamo tutto: organizziamo viaggi, effettuiamo operazioni finanziarie, acquistiamo prodotti, lavoriamo, studiamo, troviamo svago. Grazie questo magico “mondo nel mondo” entriamo in contatto con chi si trova all’altro capo del globo. Tutto è a portata di clic. Bellissimo! Se non fosse che quel clic è un valore economico, come ben spiega il docudrama di Netflix “The Social Dilemma”.

Non dobbiamo dimenticare che i social sono governati da aziende private il cui primo interesse è il profitto. Il nostro clic è il prodotto. Lo è la nostra attenzione. Perfino le nostre idee. Lo siamo noi. Ecco che le mie ricerche su Google non daranno gli stessi risultati delle tue, gli algoritmi ci profilano individualmente per offrirci quello che un’intelligenza artificiale ritiene ci possa “rapire”, agevolando acquisti che forse non avremmo fatto.

Le informazioni che riceviamo influenzano anche le nostre scelte esistenziali e politiche. Guardare i video consigliati da YouTube in base alle nostre scelte, può risucchiare dentro una bolla di realtà soggettiva dove il concetto di verità è messo a dura prova e il rischio di radicalizzarsi in posizioni estreme elevato.

Frances Haugen, ex product manager di Facebook, afferma che il social sarebbe consapevole della facilità con la quale si possano veicolare odio, violenza e disinformazione, ma non farebbe nulla in merito. Nel 2017 gli account falsi erano circa 270 milioni e dietro di essi si nascondono persone che in rete riversano il peggio di sé.

E questo, come afferma Umberto Eco, è un “dramma”, perché è forte il rischio di promuovere “lo scemo del villaggio a detentore della verità”. Ma c’è un altro dramma, molto più rilevante. Quello degli adolescenti, che, nella rete, possono restare intrappolati con ripercussioni devastanti sulla realtà.

Un’inchiesta del Wall Street Journal su Instagram, ha rilevato che tra gli adolescenti che hanno pensato di togliersi la vita, il 13% dei britannici e il 6% degli statunitensi hanno ricondotto questa idea al noto social di immagini. Le più a rischio sono le ragazze che non riescono a raggiungere gli ideali di bellezza proposti. E qui un ruolo determinante potrebbero averlo le Influencer che, consapevoli dell’uso di Instagram da parte di bambine e adolescenti, potrebbero aiutarle a trovare la bellezza nei loro difetti.

All’inizio di The social dilemma, si legge una frase si Sofocle: “Niente di così importante entra nelle vite dei mortali senza portare con sé una maledizione”. Allora, tenuto conto delle implicazioni sociali, economiche, politiche, individuali che hanno questi media nelle nostre vite, dobbiamo affrontare il dilemma etico. Occorre ragionare concretamente su questa “maledizione” e neutralizzarla.

Barbara Benedettelli per la rivista Terzo Grado di Dicembre (Mediolanum Editori)

Vittime e giustizia

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Una Costituzione garantista può menzionare tra le sue pagine solo i diritti degli imputati? Le Vittime hanno il diritto di entrare a pieno titolo in una Carta che viene ritenuta tra le più belle del mondo? Hanno il diritto di avere garanzie di protezione, di solidarietà economica e sociale, di restituzione, in qualche forma condivisa, del gravissimo torto subito?  

La giustizia capace di abbracciare la complessità del mondo è quella che afferma un concetto semplice: lo Stato e i singoli cittadini hanno il diritto-dovere di tenere alto il valore della vita umana. Sempre. Anche quando è stata soppressa. Le Vittima prima di essere un cadavere era una persona, merita rispetto anche nella morte, e in quell’aula di tribunale in cui, oggi, non è che sfondo.(…)

La morte di un familiare che avviene attraverso la violenza, è come l’anticipo della propria fine. È la propria carne che viene maciullata, è il proprio sangue che scorre via, che si perde, che si scurisce e diventa solido come cera colata. Le grida disperate di chi muore ammazzato sono come echi perenni nella mente di chi resta. Gli occhi sgranati della Vittima di fronte alla furia inarrestabile dell’assassino, sono un pezzo di ghiaccio che si conficca nel cuore e che alimenta l’immagine di un cadavere gelido, bianco come la neve. La vita di chi rimane non è più viva, è una morte che respira. Si esiste per inerzia, perché adesso è un dovere soprattutto verso chi non c’è più. E verso chi rimane. Ma nel profondo del cuore, nell’abisso dei mille perché, delle ansie perenni, non c’è più niente che possa scaldare il cammino su un terreno d’argilla. (…) 

Si parla tanto, soprattutto nella battaglia politica, dell’incostituzionalità di quello o di quell’altro provvedimento legislativo. Che cosa c’è di costituzionale in un uomo libero di continuare a fare del male ai suoi simili mentre attende un giudizio che arriverà dopo anni?(…) perché la libertà del colpevole viene sempre prima della libertà dell’innocente di non diventare Vittima? (…) Non può esserci sempre una scappatoia in grado di mettere la responsabilità personale al secondo, al terzo, all’ultimo posto. Non può farlo nessuno, né il criminale, né la legge, né il magistrato che di quella legge dà un’interpretazione che si riflette spesso in una mezza assoluzione. 

L’ordinamento penitenziario è premiale e il premio avrebbe lo scopo che ha la carota per il cavallo. Ma gli uomini non sono cavalli. E non hanno bisogno né di bastone né di carote, ma di regole severe e certe. Non si chiede la tortura, si chiedono pene adeguate al reato e al valore del bene leso o distrutto, e così umane, pur nella severità, da essere in grado di trasformare l’a-morale in morale, l’a-sociale in sociale. (…) Certe persone mettono sul piatto della bilancia i diritti civili dei carcerati senza rapportarli mai con quelli delle Vittime o dei liberi cittadini, ma soprattutto li mutano in qualcosa che di democratico non ha nulla. 

Un diritto che non prevede la responsabilità verso i diritti degli altri è un abuso. (…) Una Costituzione ideale deve mettere al centro non solo la libertà, ma anche la sua connessione imprescindibile con le responsabilità, e la frase di Vittorio Foa citata all’inizio di questo libro è determinante in questo senso: «Ogni vera libertà non può esprimersi altrimenti che nel poter scegliere come rinunciarvi». 

Il prezzo di una vita negata è una libertà trattenuta da parte di uno Stato che “stando sopra le parti” vigila e protegge con altrettanta responsabilità; che si assume gli oneri delle proprie scelte, mettendo al primo posto quei valori che tutelano la vita umana e l’integrità fisica e morale dei cittadini. Ma gli uomini di governo non sono mai riusciti a essere essi stessi sopra le parti, ad agire attraverso scelte che esulano dalla continua ricerca del consenso e che invece, di fatto, vanno troppo spesso dalla parte del giustificazionismo, del “volemose bene” di facciata che fa tanto male a giustizia e legalità. 

Perché una legge si trasformi in divieto morale deve essere rispettata da tutti. A essa deve corrispondere un deterrente in grado di porre un divieto interiore che fa appello all’istinto di sopravvivenza, che si porta dietro inevitabilmente un bisogno di libertà. (…)

Il principio cardine della nostra legge penale si basa sul fatto che è meglio ci siano cento colpevoli fuori che un innocente in carcere. Sacrosanto. Ma quando in carcere c’è un colpevole, quell’uomo deve pagare un prezzo fisso alla vita, soprattutto se ha commesso un delitto contro, la vita. (…)Perché a questi uomini viene negata la possibilità di scendere nel pozzo buio dell’anima per conoscere fino in fondo se stessi, le loro colpe gravide, le loro responsabilità letali, le loro meschinerie? Che cosa può fare l’educatore se non può agire sull’essenza, se educa una maschera, un volto di convenienza che si fa bello per poter ottenere un beneficio in termini di libertà?

Nessun uomo è innocente!», è vero. Nessuno è libero dal male. Ma è libero di non realizzarlo nel mondo. Gli assassini, gli stupratori, i pedofili, i rapitori, i sadici, gli spacciatori di droghe, non sono innocenti dinnanzi alle loro Vittime. Non lo sono rispetto al loro delitto. A chi giova, una volta scoperti, lasciarli prematuramente liberi di rubare le vite degli altri?(…) se il principio della nostra legge penale è: meglio cento criminali fuori che un innocente dentro, allora il futuro ci darà ancora Vittime.

L’innocente che si trova in prigione ingiustamente accusato, con una legge che ne tutela per davvero gli interessi – e lo libera subito, senza lungaggini burocratiche, quando c’è la prova della sua estraneità ai fatti – ha comunque la possibilità, avendo salda la vita, di dimostrare la sua innocenza. Ma l’altro innocente, quello che sta fuori e che viene ucciso nella sua vita tranquilla, che possibilità ha? (…) Non è vero che, come diceva il filosofo tedesco Treitschke, «la forza è il principio dello Stato, come la fede è il principio della Chiesa, come l’amore è il principio della famiglia»

Dov’è la forza di uno Stato che non sa trattenere i suoi criminali, educarli per davvero e restituirli alla società senza mettere in pericolo la vita di nessuno? 

Quando non è l’indulto è la prescrizione. Quando non è la prescrizione è il premio, o lo sconto automatico. La severità è solo un ricordo e l’autorità un’opinione, discutibile, modellabile. Quella strada che permette di trovare peso ed equilibrio tra le cose e nelle cose, ancora non c’è. Né dietro le sbarre, né fuori. È aspirazione. (…) 

Perdere una persona cara per omicidio provoca un dolore più grande di quello di un assassino recluso. C’è una libertà negata più importante di quella negata a un colpevole di omicidio: è quella del cadavere che si trova in una bara. È da questi due punti che dobbiamo ripartire per non aggiungere ingiustizia all’ingiustizia. Per stabilire un primato necessario alla nostra stessa conservazione. Non il primato della politica, della giustizia, della morale. Il primato della vita. Così scontato, così banale, che nessuno ormai lo tiene più in considerazione. (…) 

Nel tempo, più persone mi hanno detto che sono troppo romantica, troppo idealista, addirittura un’integralista del romanticismo. È vero. E il troppo non è mai la via giusta. Ma nonostante lo sforzo che metto nella necessità di essere meno estremista, non posso non considerare la realtà dei fatti: il più forte vince. E fino a ora le Vittime sono state, nell’apparato che dovrebbe dare loro giustizia, deboli. “Troppo” deboli.

La storia insegna però che ci sono momenti in cui gli ideali, prima definiti utopie, possono trovare quella spinta necessaria per diventare realtà. Allora non posso smettere di sognare un mondo dove la gente non abbia più paura di altra gente; dove le persone possano dare il 100 per cento di loro stesse senza la paura che chi non ci riesce le ammazzi professionalmente, civilmente, o materialmente; dove chi soffre a causa di chi usa la propria libertà per ferire, paghi in silenzio il prezzo di quella sua sfrontata, violenta, inaccettabile libertà; e dove le Vittime del male umano possano andare per la strada a testa alta, sicure di avere al loro fianco la società intera e lo Stato.


Luigi Sturzo scriveva: “Visionari e sognatori, inascoltate Cassandre e martiri di idee e di fedi, giocano sempre un utile ruolo, poiché ciò che essi dicono e soffrono aiuta a creare un pathos, un atteggiamento reccettivo della coscienza collettiva, che tende a innalzarla al di sopra del fango della compiacenza e dell’accidia, a trasferirla dalla “lettera” che uccide allo “spirito” che vivifica.


Alle Vittime non posso che dire: andate avanti, sostenete i vostri diritti umani inalienabili. Portate con dignità sul petto il nome e l’immagine del vostro caro perduto, perché la sua memoria continui ad agire nel mondo. A voi è toccato il ruolo di testimoni della realtà del male, continuate a mostrarlo. Solo così lo possiamo fermare: rendendolo nudo.


Ho chiesto la prefazione di questo libro a Rita dalla Chiesa perché in suo padre c’è l’uomo di legge e insieme uno Stato ideale che si materializza nelle azioni di un uomo per la tutela dei cittadini. 
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa si nutriva di un elevato senso della giustizia e della morale. Diceva con le parole e con i fatti: «Lo Stato è qui, non abbiate paura».


Quella frase oggi ha ancora valore, perché tutte le Vittime del crimine, sia esso comune o organizzato, vogliono sentirsi dire ancora una volta con le parole e con i fatti: «Lo Stato è qui, non abbiate paura».

Il generale dalla Chiesa voleva un futuro libero dalle minacce, uno Stato forte, che non significava fascista o comunista, significava capace di rendere liberi gli uomini di poter esprimere le proprie idee senza per questo essere uccisi. Capace di trovare il modo di difendere gli innocenti stabilendo con precisione la differenza tra loro e i colpevoli. Significava, e significa, volere uno Stato in grado di impedire che gli uomini possano essere ammazzati per ragioni economiche, professionali, per mere logiche criminali o per futili motivi.”  

Tratto da 
Vittime per Sempre (Aliberti) di Barbara Benedettelli
© Copyright 

I negazionisti del Maschicidio. Il Sole 24 Ore e La Verità

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Dici maschicidio e ti fanno a pezzi. Sei negazionista del femminicidio. Non aggiungi, neghi. Oggi basta una parola per cancellare democrazia, deontologia e libertà di espressione: negazionismo. Chi ha dubbi sull’origine del COVID non cerca la verità, è un negazionista. Chi li ha su alcuni passaggi del disegno di legge Zan, nega i diritti degli omosessuali.

Chi, come me, da anni impegnata a tutelare tutte le vittime di violenza, osa chiedere attenzione anche verso quelle maschili delle relazioni affettive e sentimentali e scrive due saggi sul “maschicidio”, è definita negazionista del femminicidio e violentemente discreditata.

 

 

Una testata autorevole come il Sole24Ore ha pubblicato un articolo in cui cita il mio lavoro per accendere luce su un lato un po’ in ombra della violenza in coppia e poche ore dopo, davanti all’incazzatura ideologica delle femministe della rete Di.Re. – che ha sostanzialmente definito il mio lavoro una fake news senza averlo mai letto -, lo modifica integralmente.

Non più una richiesta di attenzione verso l’altro lato della medaglia ma l’ennesima affermazione che le donne sono più vittime delle altre. Poi il Sole 24 Ore va oltre, con un post sui propri social network, dove si afferma che i dati della fonte Benedettelli “proponevano una lettura del fenomeno non corretta” esponendomi a un violento shitstorm (una “tempesta di merda” digitale).

PECCATO CHE L’ERRORE LO ABBIANO FATTO LORO, FACENDO RIFERIRE I DATI AL 2018 ANZICHE’ AL 2017!!

Criticare si può, anzi, si deve, in modo costruttivo, di fronte a temi così importanti. Censurare no, in democrazia non si può. Nè si può screditare una persona e il suo lavoro, come è stato fatto violentemente con me. 

Allora ristabiliamo la verità.

La mia NON è una lettura scorretta del fenomeno, è una DIVERSA lettura culturale e scientifica già ampiamente studiata e applicata in altri paesi.

 

 

I dati da me forniti ai giornalisti del quotidiano, su loro richiesta, non riguardano il 2018 e non arrivano dal Viminale, come da loro erroneamente scritto, bensì provengono dalla mia indagine indipendente Violenza domestica e di prossimità, i numeri oltre il genere nel 2017, costruita a partire dalle testate locali e nazionali.

Stesso metodo utilizzato da fonti autorevoli quali La 27 Ora, In quanto donna ecc.. La differenza è che loro raccolgono solo i casi con Vittime femminili, io non faccio distinzioni e li raccolgo tutti. Poi, come mi è concesso dall’articolo 21 della Costituzione italiana, li analizzo e ne traggo una opinione che condivido, con la finalità di aprire un sano discorso pubblico su un problema sociale che riguarda tutti.

Attraverso la cronaca nera il mio report mostra un quadro che impone quantomeno un approfondimento empirico istituzionale, una valutazione delle attinenze tra violenza maschile e femminile, e di quella presente in tutte le relazioni interpersonali più significative. Proprio in queste ultime abbiamo il maggior numero di vittime:

 

esclusi gli omicidi in ambito criminale, dalla lettura della cronaca nera ho individuato ben 236 persone, sulle 355 indicate dal Viminale, uccise in famiglia, in coppia, tra amici, vicini di casa, colleghi di lavoro. Le vittime femminili sono 120, le vittime maschili sono 116.

 

Un allarme c’è: oggi all’interno delle relazioni interpersonali significative (Ris) uomini e donne muoiono di morte violenta più che in ambito criminale. Vale la pena parlarne?

Dall’analisi sulle varie fonti mainstream è emerso che molte uccisioni di donna nei suddetti ambiti sono state inserite nella categoria femminicidio, compresi gli omicidi il cui assassino è uno sconosciuto: nel 2017 sono morti 17 uomini e 5 donne, scelti non in quanto tali ma in quanto vulnerabili, infatti si tratta perlopiù di giovanissimi e anziani.

Però, inserire le donne nella categoria femminicidio indipendentemente dal rapporto vittima/carnefice e dal movente è una deviazione culturale e una mistificazione che non permettono di individuare le corrette politiche di prevenzione. Ecco perché la mia indagine va a scomporre il numero totale per ambito:

 

Affettivo/Familiare (40 vittime femminili, 40 vittime maschili); Sentimentale/Passionale (62 vittime femminili, 37 vittime maschili); Prossimità (14 vittime femminili, 39 vittime maschili). Di autori e vittime si rilevano nazionalità, età, moventi, tipo di relazione, genere, precedenti penali. Davvero è un’indagine parziale come sostenuto?

 

Vediamo cosa è emerso sul piano sentimentale, tenendo conto che il neologismo maschicidio è necessario nella misura in cui lo è quello opposto per dare dignità alle vittime e renderle visibili sul piano sociale e politico. E che ci sono differenze legate ai ruoli di genere e un’importante analogia, il movente di matrice patriarcale. Che, però, non è dominante nel complesso delle Ris.

I dati che seguono non tengono conto di 4 donne uccise perché all’epoca dell’indagine non si conoscevano l’autore o il movente e non era possibile catalogare queste morti; e i 4 uomini italiani uccisi all’estero.

 

Su 62 uccisioni di donne in coppia, nella categoria femminicidio ho inserito i delitti in cui erano presenti maltrattamenti pregressi e prolungati o il cui movente è ricondotto al senso di possesso, le vittime sono 42, in linea con i 41 casi indicati dalla Polizia di Stato nell’indagine “…questo non è Amore” relativa al 2017.

 

Su 37 uomini uccisi, nella categoria maschicidio sono stati conteggiati i delitti con lo stesso movente: 5 uccisi dalle compagne, 1 dal compagno, 20 da un rivale in amore. Omicidi, questi ultimi, che possiamo definire dell’onore o del possesso: uccidere il nuovo compagno della donna che ha “osato” sostituire l’ex con un altro equivale a ristabilire il principio di proprietà su di lei. È accaduto nei primi mesi del 2021 a due giovani uomini, Daniele Tanzi, 18 anni e Gianluca Coppola, 27 anni.

Le loro morti non sono meno scandalose di quelle di donne uccise a causa degli schemi culturali inconsci del passato.

Tutti gli altri delitti accaduti in ambito di coppia, per correttezza formale li ho definiti coniunxcidi, da coniuge, perché l’attuale termine giuridico uxoricidio riguarda solo le mogli. I moventi hanno a che fare con burnout, depressione, violenza reciproca, futili motivi, psicosi ecc.. Le vittime femminili sono 20, le vittime maschili sono 11, tra cui una in coppia omosessuale. Se confrontiamo il numero totale degli uomini uccisi dalle loro donne nel 2016 – presenti nel mio saggio “50 sfumature di violenza” – con quelli del 2017, il trend è in crescita: 12 contro 15.

Per quanto riguarda i maltrattamenti femminili i dati me li ha forniti il centro antiviolenza Ankyra di Milano, che non fa distinzione tra Vittime maschili o femminili:

 

tra marzo 2020 e marzo 2021, periodo che include il lockdown, si sono rivolti al centro 205 uomini dai 15 agli 85 anni, contro i 106 dell’annualità precedente. Negli ultimi 5 anni e mezzo il 63% ha chiesto aiuto per maltrattamenti fisici, l’88% per maltrattamenti psicologici, il 19% per stalking, e non mancano violenza economica e sessuale.

 

Certo, i numeri sono inferiori rispetto a quelli delle donne, ma in un paese civile ogni singola vita umana deve contare. Se non è così perché si ritiene che gli uomini, in quanto tali, non possano che essere carnefici, si conferma la necessità di parlare di maschicidio.

La stessa Convenzione di Istanbul, pur mettendo in primo piano la tutela della donna, riconosce che ”anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica”. Dovrebbe pertanto essere applicata anche per loro.

Ma in Italia c’è una povertà teorica, condita da violenza politica, da parte di chi, sostenendo a spada tratta il femminicidio, nega o riduce le altre cause, le responsabilità femminili e il fenomeno opposto. Complice la semplificazione mediatica e la censura, provata sulla mia pelle, diventa allora impossibile estirpare tutte le radici di una violenza che è sempre più radicale.

 

Barbara Benedettelli ringrazia il quotidiano La Verità per averle permesso di difendere la propria persona, il proprio lavoro e una causa sociale, da diffamazione, discredito e shitstorm.

 

Clicca per leggere l'indagine sulla violenza

 

La vita va difesa e deve avere un “prezzo”

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La vita va difesa. Smettiamo di svalutarla! La nostra vita qui e ora è una condicio sine qua non, una condizione senza la quale non c’è null’altro. Possiamo permetterci di trattarla come carta straccia, come oggetto del desiderio, come mera illusione? Possiamo disprezzarla al punto da perdonare con facilità chi la frantuma? Davvero la libertà pesa più della vita? Un giovane Vittorio Foa, dal carcere in cui si trovava a causa delle sue idee politiche, scriveva che:

«Ogni vera libertà non può esprimersi altrimenti che nel poter scegliere come rinunciarvi». Ebbene, chi fa del male agli altri sceglie, liberamente, di rinunciare alla propria libertà.

Un giorno la mamma di una ragazza di diciannove anni, uccisa con un colpo alla testa sparatole alle spalle dall’ex fidanzato, mi ha scritto: «Barbara, ti abbraccio con profonda speranza». Nonostante tutto, nonostante la perdita di ciò che per una madre è cuore, carne, sangue, anima, questa donna dagli occhi azzurri come il cielo e dal nome gioioso, Clementina, ha saputo parlare di speranza. La speranza che questa giustizia, umana e democratica, possa essere più forte, più attenta, più consapevole del valore vita di quanto non lo sia l’altra “giustizia”: quella individuale, illegale e autoritaria, convinta di avere ragione anche quando uccide e così astuta da usare a proprio vantaggio i cavilli, le imperfezioni della prima e la superficialità di troppi uomini.

La supremazia dell’una sull’altra dipende dal soggetto che viene messo al centro e che è portatore di valori capaci di diffondersi. Quali valori si diffondono se al centro vengono messi l’assassino e la sua difesa nonostante la verità dei fatti, la loro gravità?

È facile sentir dire da un omicida che giustifica la sua libertà prematura: «Merito una seconda possibilità!» È raro sentir pronunciare: «Merito ogni giorno, ogni ora, ogni minuto di questa condanna. La merito e la sconterò per intero, perché la pena che mi procura è sempre notevolmente inferiore rispetto a quella tremenda che ho inflitto agli altri». Eppure dovrebbe essere proprio questo lo scopo del fine educativo della pena: far capire che ci sono leggi, norme, principi e diritti che hanno un valore super partes perché tutelano beni sine qua non, e tra questi c’è anche la libertà. Ma non la libertà di uccidere. Né di ferire.

La civilizzazione ha fatto il suo corso. Siamo davvero lontani dalle “mille morti” inflitte in passato dal sovrano ai criminali. Adesso c’è bisogno di recuperare l’innocenza della Vittima scapito della malvagità di cui l’uomo è capace; per riportare giustizia dove non c’è e rafforzare un tabù che non è mai stato decisivo: “Non si può uccidere!”.

Punti fermi e indiscutibili sono i principi di civiltà raggiunti nell’ambito giudiziario e penale. L’attuale governo ha dichiarato lo stato di emergenza per tutto il 2010 per quanto riguarda il problema del sovraffollamento delle carceri e lavora insieme a coloro che, quotidianamente, si preoccupano di far rispettare i diritti dei detenuti. Adesso dobbiamo fare un passo “oltre”.

Una Costituzione garantista può menzionare tra le sue pagine solo i diritti degli imputati? Le Vittime hanno il diritto di entrare a pieno titolo in una Carta che viene ritenuta tra le più belle del mondo? Hanno il diritto di avere garanzie di protezione, di solidarietà economica e sociale, di restituzione, in qualche forma condivisa, del gravissimo torto subito?

La giustizia capace di abbracciare la complessità del mondo è quella che afferma un concetto semplice: lo Stato e i singoli cittadini hanno il diritto-dovere di tenere alto il valore della vita umana. Sempre. Anche quando è stata soppressa.

La Vittima prima di essere un cadavere era una persona, merita rispetto anche nella morte, e in quell’aula di tribunale in cui, oggi, non è che sfondo. Così come i cari di chi non c’è più devono ricevere tutela, la stessa che è riservata a chi si trova a essere accusato di un delitto. La speranza dei congiunti di chi è stato ucciso di poter seppellire i propri morti con dignità, nel rispetto di ciò che essi sono stati per loro e per la Storia comune, sta tutta qui.”©

Tratto da Vittime per Sempre di Barbara Benedettelli

@bbenedettelli

Riforma Giustizia: innocenti ai domiciliari, delinquenti fuori

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Riforma Giustizia: si vuole ridurre le pene e ampliare la possibilità di patteggiamento. E’ giusto?

“ Ci han tenuti tutti per più di un anno ai domiciliari per Covid per tutelare la salute e la vita e adesso propongono di liberare gente che fa rapine, violenza privata e molti altri orrendi reati. Questo ci consegnerà un futuro nero, perché figlio dell‘impunità che indurrà queste persone a commettere reati ben più gravi”.

È il grido di Barbara Benedettelli, giornalista e attivisti per i diritti delle vittime, che così ha commentato la proposta di sgravare i carichi processuali con riti alternativi. In proposito interviene anche l’avvocato Elisabetta Aldrovandi, Presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime

“Questi emendamenti prevedono di aumentare lo sconto di pena automatico dato dal rito abbreviato (che se chiesto dall’imputato va concesso) dal 30% al 50% per i reati puniti con pena massima fino a 5 anni, e quella di allargare la possibilità del patteggiamento (concesso all’imputato se il PM è favorevole) anche ai reati per cui si prevede una pena finale non superiore a 8 anni, con uno sconto anche qui del 50% della pena.”

“Ciò comporterà”, precisa Aldrovandi  “che molti reati gravi avranno più possibilità di essere puniti con pene sospese o misure alternative che, di fatto, significano nessuna pena, o comunque una pena che vedrà modificata, se non azzerata, la sua funzione afflittiva, retributiva e riabilitativa. Dall’altra parte”, prosegue l’avvocato, “si cercherà di valorizzare la parte riparativa della condanna, subordinando l’archiviazione del procedimento penale al risarcimento danni o un’azione riparatoria da parte dell’imputato, avvilendo ancora di più il ruolo della Vittima in ambito processuale, già ora considerata, a tutti gli effetti, una parte eventuale del processo, il quale si può svolgere anche in assenza di una sua partecipazione formale.

Ma a un anziano truffato piuttosto che a una persona massacrata di botte o a una vittima di stalking o maltrattamenti in famiglia, giusto per citare qualche esempio, chi penserà? Se queste richieste saranno approvate e diventeranno legge, assisteremo a contro riforme inaccettabili e a un’involuzione giuridica e processuale, dopo anni di battaglie per le vittime e a piccoli grandi passi raggiunti, come il divieto del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo.”


Trovo inaccettabile”, rincara la Benedettelli “che una società arrivata al lockdown e al coprifuoco – misure tipiche delle guerre, che comprimono al limite della legittimità le libertà personali – per tutelare la vita e la salute da un virus, possa pensare di ridurre la portata delle pene, dunque di ‘quel sensibile motivo che impedisce di commettere illeciti’ per dirla con Beccaria, per reati da gravi a gravissimi che ove commessi comportano una lesione della salute psicofisica delle persone. Reati che, se non opportunamente puniti, possono portare i rei a superare i limiti fino ad uccidere, come ben dimostra quanto accaduto dopo l’ultimo indulto.”


“Per questo”, concludono le due con unanime pensiero “invitiamo tutte le forze politiche, soprattutto quelle che in passato hanno sostenuto importanti sfide per le vittime, a essere unite e coese nel contrastare queste proposte. Perché una Vittima non vuole vendetta, ma semplicemente giustizia. E regalare sconti di pena a pioggia o mortificare ancor più il ruolo della vittima non è degno di uno Stato di diritto”.

Tratto da Palermomania.it

Adolescenti “ristretti” dalle misure contro il Covid

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Fiorello ha pianto pensando sua figlia costretta all’isolamento in una delle età più belle e importanti della vita. E piango anche io, mamma di un quattordicenne suo coetaneo, condannato senza possibilità di appello alla solitudine forzata. E alle inevitabili ripercussioni sulla sua salute mentale (che nessuno pensa di tutelare) e sul suo futuro.

Eppure gli effetti di questa prigionia sono evidenti. Lo sono grazie ai pochi che se ne stanno occupando attraverso appositi studi, e negli ospedali, dove insieme ai malati Covid aumentano i casi psichiatrici che vedono coinvolti i ragazzini.

In alcune regioni chiudono le scuole. Ancora. Tutte. Lo si fa da oggi pomeriggio a domani mattina. Senza pensare ai genitori che non possono andare al lavoro. E soprattutto a loro. I nostri figli. Gli uomini e le donne di un domani che non sanno neanche più immaginare.

In Lombardia, dove vivo, i liceali erano in alternanza. Un giorno sì e uno no alcuni, una settimana si e una no gli altri. A nessuno, tra chi ha deciso il giovedì di chiudere il venerdì, è venuto in mente che quel venerdì a scuola per un adolescente del 2021 è aria. Davvero chiudere il sabato avrebbe cambiato le cose per il Covid? Di certo le avrebbe cambiate per loro. Questi esseri in evoluzione, di cui non frega un cazzo a nessuno! Il francesismo è obbligatorio. Non mi scuso. 

Chiudono le scuole (l’ultima delle priorità nell’era dell’uno vale uno, anche se ora c’è Draghi al momento questo è) e cosa succede? Il virus se ne va all’improvviso? Puff! Avrei un altro francesismo, ma mi taccio.

In un anno abbiamo allargato le aule, le abbiamo improvvisate ovunque, abbiamo allontanato i banchi e aperto le finestre in inverno. Poi li abbiamo obbligati a tenere una maschera che copre mezzo volto per ore e ore in classe, senza mai poter prendere fiato, oppure arriva la nota. Se serve si fa! Ma serve?

Il passaggio tra le medie e il liceo è una tappa obbligata della vita che va oltre la didattica. Ha a che fare con l’evoluzione umana. Il coetaneo amico/nemico non è un vezzo, è una necessità biologica, psichica, indispensabile alla crescita.

In un anno cruciale della loro esistenza sul piano psicofisico, queste giovani anime, al momento perse, sono passate da mesi di terza media in Dad, al primo esame importante della vita in Dad, al salutare i vecchi compagni in chat. Fine pena mai, questo pensano. Perché anche la prima Liceo entra subito nell’incubo Dad (Dispositivo Altamente Degenerativo, ovviamente un mio neologismo). Ma chi decanta la Dad i figli li ha? E se li ha, non sente il pianto lancinante della loro anima?

Loro la vita normale quasi non la ricordano più. Pensano, e temono, che non tornerà. Ma quando tornerà – e tornerà -, terrà conto del salto temporale che sono stati costretti a fare?

Dei nuovi compagni e dei professori vedono solo gli occhi. Stanchi, arrabbiati, tristi.  O severi. Perché tra i prof c’è anche chi, alla fine, in Dad sta bene. E continua imperterrito a fare lezione per un’ora di fila, a volte due, anche superando di qualche preziosissimo minuto quella pausa tra una lezione e l’altra in cui staccarsi dal pc per sentirsi un po’ più umani.

Posto che l’attenzione vigile e costruttiva è limitata già in presenza, figuriamoci in Dad! Ma chissene. E via con i 3 i 4 e i 5. A che pro? L’unica cosa che si potrebbe certamente recuperare sono proprio le nozioni.

Possiamo dire che la rete e il monitor durante le chiusure hanno comunque contribuito a mantenere gli alunni attivi sul piano intellettuale e anche su quello sociale. Ma non possiamo dire che questo tipo di socialità sia umana. E’ mediata da mezzi freddi, che sì, permettono di restare connessi, ma che senza il contatto fisico obbligano a rinunciare alle emozioni. Dunque all’umanità.

Gli adolescenti sono persone in una delle età più complicate e straordinarie della vita. Complicate, delicate e allo stesso tempo magiche. Perché è proprio tra i 13 e i 15 anni che comincia la strada per l’indipendenza. E’ qui che si spiegano le ali e si comincia a volare da soli. Ecco, quelle ali gliele abbiamo legate per un anno.

Il rischio è che quando le slegheremo potrebbero non essere più in grado di farli alzare in volo, perché l’eta biologica in cui ciò accade è trascorsa tra morti, mascherine, disinfettanti, solitudine, schermi freddi, mancanza di abbracci. Impossibilità di pensare e organizzare il futuro più prossimo.

In una fase evolutiva che non può tornare – a meno che non vi sia una regressione cerebrale -, perché determinata dalle modifiche strutturali e funzionali del cervello, hanno imparato ad avere paura. Paura dell’altro e delle istituzioni, che si sono dimostrate insensibili ai loro bisogni più elementari. Come quello, per alcuni banale, di stare insieme ai propri coetanei per specchiarsi e riconoscere se stessi.

E hanno imparato a odiare gli adulti, che si sono dimostrati incapaci di affrontare con determinazione un virus piccolo piccolo che li ha resi altrettanto piccoli ai loro occhi. E che a volte hanno più paura di loro. O, peggio, li individuano come causa di tutti i mali. 

Recupereranno mai, sul piano emotivo, un anno di vita anche interiore persa? Per quanto ancora la salute mentale delle nuove generazioni sarà l’ultima delle priorità? Come si “ristora” una mente adolescente la cui evoluzione è stata messa interrotta così a lungo, in isolamento, sostanzialmente al buio?

E ora veniamo alla scuola, ai programmi. Anche qui mi viene da piangere. Perché nessuno ha pensato di modificare la programmazione didattica continuando a lavorare come se tutto fosse normale? Questi nostri figli, né carne né pesce, né bambini né ragazzi, demotivati, tristi, arrabbiati, come possono seguire un programma che non tiene conto delle loro enormi difficoltà?

Per finire questo mio lungo sfogo desolato e triste, perché ricco di senso di impotenza, veniamo alla scelta di chiudere le scuole e tenere i negozi aperti, se pur con ingressi contingentati.

Cosa dire loro quando chiedono perché non possono fare sport, vedere gli amici, andare a scuola, mentre si può uscire per andare a comprare la cosa più inutile del mondo? “E’ necessario tenerle aperte per mantenerle in vita”. E perché – rispondono loro – a noi ci state facendo morire dentro? 

Barbara Benedettelli

Kam McLeod e Bryer Schmegelsky, i ragazzi della morte

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Bryer Schmegelsky, 18 anni e Kam McCleod, 19 anni, sono due adolescenti apparentemente normali, trasformatisi in assassini spietati. E’ il 2019 e siamo in Canada. A vedere i volti immortalati nei frame del video che la polizia canadese sta divulgando, non diresti mai che Bryer e Kam potrebbero essere i killer spietati di una coppia innamorata. 

Ad ascoltare le parole di familiari e amici, il primo è un ragazzo con una grande sofferenza dentro, dovuta alla separazione dei suoi genitori avvenuta quando aveva 5 anni, ma timido e tranquillo; mentre il secondo è “un giovane gentile e premuroso che si è sempre preoccupato per i sentimenti degli altri”. Come possono essersi macchiati degli orrendi omicidi di persone sconosciute, incontrate sulla loro strada?

La furia assassina è scattata casualmente dopo la partenza da Port Alberni (Vancouver) per cercare lavoro altrove, scappano dal vero assassino in quanto testimoni dei delitti, oppure avevano premeditato da tempo di trasformare le strade canadesi in un videogames violento? Bryer e Kam erano ossessionati dai videogiochi. In particolare il primo che al padre aveva detto: “E se fosse tutto vero? Ti immagini se tutto questo fosse reale?”.

Ma partiamo dall’inizio.

Sono le 8,24 della mattina del 12 luglio. Bryan scrive un messaggio a suo padre: “Papà sto andando ad Alberta con Kam. Nella zona

internet prende poco, ti chiamo appena posso”.

Il 13 luglio contatta la nonna, con la quale viveva da due anni, poi più nulla. Lo stesso giorno a Fort Nelson, a circa 1800 km dal luogo dal quale sono partiti i due adolescenti e oltre 1000 da dove erano diretti, Lucas Fowler, 23 anni, e la sua fidanzata Chynna Deese, 24 anni, vengono immortalati dalle telecamere di un benzinaio mentre riempiono di carburante il loro furgoncino. Stavano rientrando da un viaggio in Alaska.

Il giorno dopo però il furgoncino si ferma sull’autostrada 97, tristemente nota come “l’autostrada delle lacrime” perché dagli anni ’60 è terreno di caccia di un serial killer che ha ucciso decine di giovani donne. Chi passa di lì e li vede chiede se hanno bisogno di aiuto, ma loro rifiutano convinti di potercela fare da soli. Invece il 15 luglio i loro corpi trivellati di colpi d’arma da fuoco vengono scoperti sul ciglio della strada. Intanto a centinaia di chilometri da lì Bryan e Kam fanno rifornimento per il loro pick-up. Sono tranquilli, come tre giorni e diverse ore di viaggio dopo, quando bevono un caffè a nord di Dease Lake. Le due storie sembrano separate, il 19 luglio però la loro auto viene trovata bruciata vicino al lago Dease, a circa 500 chilometri dalla scena del crimine del duplice omicidio. Di loro non c’è traccia.

A due chilometri dal rogo emerge un altro cadavere. Si tratta di un professore di botanica in pensione, Leonard Dyck, 64 anni, di Vancouver. Domenica 21 Bryan e Kam vengono avvistati alla guida di una Toyota RAV4 grigia vicino a Meadow Lake, ritrovata bruciata il seguente vicino a Gilliam, nel nord di Manitoba, a 14 ore di distanza.

E’ qui che i due ragazzi da semplici persone scomparse diventano criminali ricercati, “armati ed estremamente pericolosi”.

Il 27 luglio nel territorio impervio di Gillam atterra l’esercito canadese per aiutare la polizia in una ricerca maestosa e pericolosa. Se davvero sono gli assassini di Deese, Fowler e Dyck, non hanno più nulla da perdere. Incontrarli potrebbe essere fatale per chiunque, militari compresi.

Gillam è una sorta di trappola per topi perché attraversata da un’unica strada senza uscita, poco più di 400 case e chilometri di foresta fitta, paludosa e piena di insetti aggressivi.

Ma forse non per loro che per circa due anni si sarebbero allenati alla sopravvivenza sia con i videogiochi strategici, sia nei campi di Port Alberni con le pistole finte. Forse avevano programmato tutto, forse, come ha detto il padre di Bryan “è una missione suicida”. Il completo nero he aveva comprato qualche settimana prima “è il suo abito funebre”, dice con le lacrime agli occhi.

“Mio figlio vuole che il suo dolore finisca. Ma lo farà finire in un tripudio di gloria”. Se una motivazione, per quanto ingiustificabile, per lui si può trovare, resta un mistero il ruolo del generoso e solidale Kam.

I corpi di McLeod e di Schmegelsky sono stati trovati all’inizio di agosto, a settimane di distanza dalla fuga attraverso i territori canadesi e tre omicidi.

La loro macchina fotografica digitale con i foto e i video che conteneva ha sciolto parte del mistero: nei video raccontano di essere gli assassini che hanno seminato orrore e morte, pronti a uccidere ancora; nell’ultimo video ammettono di aver fallito, il fiume era impraticabile e non li avrebbe portati in Europa o in Africa come avrebbero voluto. La sola soluzione era il suicidio. Un fallimento che purtroppo non è costato solo le loro vite.

Barbara Benedettelli 



Weinstein condannato in attesa di un altro processo

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Weinstein condannato a 23 anni di carcere lo scorso marzo, è ora in attesa di un altro processo a Los Angeles, ritardato dal Coronavirus. Sono più di 80 le donne che affermano pubblicamente di avere subito una qualche forma di violenza sessuale da Harvey Weinstein. Tra di loro le italiane Asia Argento e Ambra Battilana; Rosanna Arquette, Mira Corvino e Rose McGowan; o stelle di prima grandezza come Gwyneth Paltrow, Daryl Hannah, Ashley Judd.

Tutto è cominciato il 5 ottobre 2017, quando il New York Times ha pubblicato un articolo in cui si raccontano decenni di presunte molestie sessuali di Weinstein. C’è chi racconta della costrizione a massaggiarlo e guardarlo nudo, chi sostiene che si presentava in accappatoio, chi di subire ricatti sessuali in cambio di avanzamenti di carriera.

Il vaso di Pandora è aperto e comincia un imponente processo mediatico. Lui nega tutto. Sostiene ci sia una cospirazione, che il sesso è sempre stato consensuale. Ma diventa il “nemico pubblico numero uno”. Il simbolo di una lotta femminile contro gli abusi sessuali che prende il nome #MeToo (anche io) grazie al tweet lanciato dall’attrice Alyssa Milano il 15 ottobre successivo.

La moglie, Georgina Chapman, lo lascia. Il fratello Bob, co-fondatore della casa di produzione, è costretto a buttarlo fuori. Il Me Too cresce e tra gli altri cadono star del calibro di Bil Cosby, Kevin Spacey, Dustin Hoffman. In Italia tocca al regista Fausto Brizzi, le cui accuse vengono archiviate, dopo il massacro mediatico.

Intanto Weinstein cerca di bloccare la montagna che lo ha travolto con accordi milionari. Per risolvere le cause civili e risarcire le presunte vittime sborsa decine di milioni di dollari. Il 25 maggio del 2018 è comunque costretto ad arrendersi e a consegnarsi alla polizia di New York.

Pagata la cauzione di un milione di dollari torna a casa con il braccialetto elettronico in attesa del primo processo. Il 24 febbraio 2020 Harvey Weinstein crolla definitivamente come il suo imponente castello di sabbia. La Corte di New York ha emesso un verdetto di condanna e l’ex re dell’Olimpo holliwoodiano, produttore di film come Pulp Fiction e Shakespeare in Love, viene arrestato in aula.

Respinta la richiesta di arresti domiciliari, dovrà sostituire le pareti dorate della sua vita fastosa con quelle scarne di una cella. La giuria, composta da sette uomini e cinque donne, lo ha ritenuto colpevole di violenza sessuale nei confronti dell’ex assistente di produzione Miriam Haleyi e dell’ex attrice Jessica Mann: la prima costretta a un rapporto orale nel 2006, la seconda stuprata nel 2013.

Il giudice James Burke tra un’entità della pena che va dai 5 ai 25 anni di carcere ha scelto di condannarlo a 23 anni. Dall’accusa di essere un predatore sessuale seriale, che prevede l’ergastolo è invece stato assolto. Ma Weinstein, che ha 67 anni, potrebbe restare in prigione fino alla fine dei suoi giorni.

Il suo dream team di cinque avvocati capitanati dall’avvenente e agguerrita Donna Rotunno non si arrende e ha annunciato il ricorso in appello. La tesi della difesa sempre la stessa: i rapporti sessuali del produttore erano consensuali; le vittime hanno continuato a frequentare l’ex patron di Miramax anche dopo i fatti denunciati.  Difficile, però, mantenere nervi saldi e ottimismo. Mentre l’ex produttore cinematografico lo scorso 6 gennaio entrava curvo e sofferente nel tribunale di New York, come una bomba a orologeria è stato annunciato il rinvio a giudizio anche a Los Angeles.

Questo semi-dio caduto, ridotto l’ombra di se stesso e costretto a camminare con un deambulatore a causa di un incidente, è stato accusato formalmente di due stupri anche nella terra degli angeli. Era il febbraio del 2013. Gli Hotel di Beverly Hills pullulavano di star e pretendenti tali. Outfit da sogno, scintilli dorati, sorrisi smaglianti rivolti ai flash dei fotografi. Tutti pronti a partecipare alla notte degli Oscar in attesa del premio più ambito al mondo, o dell’incontro decisivo.

E’ in questo contesto che nelle notti del 17 e del 18 febbraio, l’uomo che aveva il potere di vita e di morte su molte carriere, avrebbe assalito sessualmente due donne. Tra di loro un’attrice e modella italiana – rimasta anonima per tutelare i tre figli – che nel 2017 lo ha denunciato prima alla procura e poi con un’intervista al Los Angeles Time.

L’uomo corpulento, sicuro di sé, ricchissimo e convinto di poter comprare tutto, ormai solo un anziano signore vinto dalle sue stesse pulsioni che ha bisogno di altre braccia per sorreggerlo mentre cammina, adesso attende l’estradizione a Los Angeles per riapparire nelle aule di un nuovo tribunale. Ritardata solo a causa del Coronavirus.

Barbara Benedettelli

Davvero il milionario li ha uccisi tutti?

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Il milionario Robert Durst è un feroce assassino o i sospetti e le accuse sono infondati?

Che cosa diavolo ho fatto? Li ho uccisi tutti, ovviamente”.

Queste sono le parole che il milionario americano Robert Durst pronuncia alla fine del documentario che ne rimarca la vita e i crimini, veri e presunti.

La miniserie di sei puntate “The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst”, prodotta dall’HBO e andata in Onda su Sky Crime nel 2015, a marzo 2020 (rimandato al 2021 a causa del Covid-19) sarà accolta come prova nel processo per l’omicidio di Susan Berman.

L’unica uccisione per la quale l’erede 76enne di una famiglia il cui patrimonio è stimato in 650 miliardi di dollari, potrebbe essere condannato. Non è infatti l’unica di cui nel tempo è stato accusato o sospettato.

Susan, amica di Durst sin dai tempi dell’Università, è stata trovata morta con un colpo di pistola alla testa nella sua casa a Benedict Cabyon (California), il 24 dicembre del 2000. Qualche giorno prima avrebbe dovuto essere interrogata nell’ambito della seconda inchiesta sulla scomparsa, nel 1982, di Kathleen McCormack, la donna che il milionario affetto dalla sindrome di Asperger e debilitato dalla malattia, aveva sposato otto anni prima.

E sarebbe proprio questo, per l’accusa, il movente che avrebbe spinto Durst a uccidere la Berman. Forse sapeva qualcosa di quel 31 gennaio quando Kathleen fu vista viva (e arrabbiata) per l’ultima volta.

Era in Connecticut a festeggiare il capodanno da amici ed è sparita nel nulla dopo aver ricevuto una chiamata di Robert, da subito il sospettato numero uno. Ma difficile incriminarlo senza prove e soprattutto senza un cadavere.

Diverso è nel caso di Susan. Il figliastro consegnò agli autori di The Jinx la busta di una lettera inviata da Durst a sua madre poco tempo prima che fosse uccisa. L’intestazione era scritta con una grafia particolare e l’indirizzo conteneva un errore: “Beverley Hills”, al posto di “Beverly Hills”. La stessa grafia e lo stesso errore erano presenti nella lettera anonima con cui nel 2000 la polizia era stata avvertita della presenza di un cadavere nella casa della Berman.

Nell’ultimo episodio della serie vengono mostrate a Durst le fotografie delle due buste: lui appare nervoso ma non ammette nulla. Però quando l’intervista finisce va in bagno e – convinto di aver il microfono spento – parla a se stesso a voce alta:

Che cosa diavolo ho fatto? Li ho uccisi tutti, ovviamente.

Il 14 marzo 2015, un giorno prima della messa in onda, l’eccentrico e controverso milionario viene arrestato. Non è la prima volta.

Dopo la morte di Susan si trasferisce a Glaveston (Texas) travestito da donna muta: Dorothy Ciner (il nome di una vera conoscenza d’infanzia). Passano alcuni mesi e dalla baia della città costiera emergono alcuni sacchi della spazzatura che contengono il busto di un uomo, una pistola automatica calibro 22, una sega ad arco, e poi braccia e gambe avvolte in vecchie copie del Daily News con un’etichetta su cui è inciso un indirizzo.

Non ci vuole molto per risalire al nome della vittima e al suo assassino: Morris Black, 61 anni e Robert Durst (Dorothy Ciner), vicini di casa.

Durst viene arrestato; scappa per essere ritrovato in un supermercato in Pennsylvania dove ha rubato un panino; viene processato. Per l’accusa avrebbe ucciso il vicino per assumerne l’identità, ma i suoi legali sono riusciti a convincere la giuria che si è trattato di legittima difesa e che la distruzione e l’occultamento del cadavere erano dovuti al panico.

La mancanza della testa di Black aveva impedito di determinare le modalità della morte, passò quindi la versione di Durst secondo cui era partito un colpo accidentale durante una lite. Fu assolto per l’omicidio, ma condannato a 5 anni di detenzione per manomissione delle prove. Però nella sua auto era stata trovata una pistola da 9 millimetri, lo stesso calibro di quella usata per uccidere Susan.

A febbraio il processo metterà la parola fine? Oppure Durst sarà al centro della cronaca nera anche dopo?

Secondo la polizia di Middlebury (Vermont), esiste un legame tra il milionario e la scomparsa nel 1971 della 18enne Lynne Schulze. All’epoca Durst a Middlebury aveva un negozio di alimenti naturali. Anche questo un Cold Case, su cui si continua a indagare.

E’ qui l’inizio di tutto? O è a New York, nel 1950, quando Robert aveva solo 7 anni e sua madre, poco più che trentenne, si è buttata davanti ai suoi occhi dall’ultimo piano del palazzo in cui vivevano?

Chi è davvero Robert Durst?

Un uomo sfortunato, debilitato fisicamente e mentalmente dalla perdita prematura e violenta dei propri cari di cui non ha colpa, oppure è un serial killer astuto, capace di farla sempre franca?

Barbara Benedettelli