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Esiste una violenza politica e fisica contro il maschio in quanto tale? Insomma, il maschicidio esiste? Proviamo a darne una definizione. Nel solo mese di agosto 2019 tre donne hanno ucciso i loro compagni o ex compagni. Ecco i loro nomi: Francesco Armigero, 30 anni, Nicola Pizzi, 53 anni, Leonardo Politi, 61 anni. Non ho sentito parole di sdegno, né da parte della società civile, né da parte della politica. Anzi. Sui social, quando si annuncia l’uccisione di un uomo da parte di una donna, è facile vedere una rimostranza femminile violenta e incivile.
Allora, tenendo conto che il neologismo maschicidio è “necessario” nella misura in cui lo è quello opposto, dunque per dare dignità alle Vittime e per rendere visibile sul piano sociale e politico un fenomeno di dimensioni certamente ridotte rispetto al femminicidio, ma altrettanto rilevante. Che cos’è il maschicidio se non la “violenza sul maschio in quanto maschio”, dove il maschio è inteso come portatore di un mondo arcaico che per secoli ha visto le donne segregate, dominate e uccise, e di cui “vendicarsi”. In particolare negli ultimi tempi, possiamo parlare di odio antropologico femminile verso gli uomini?
Facciamo un gioco, che è un po’ anche una provocazione: prendiamo come buono il concetto di femminicidio di Diana Russell, descritto nel primo capitolo di “50 sfumature di violenza”, e riadattiamolo per dare una definizione di maschicidio:
Il maschicidio si estende oltre la definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte dell’uomo rappresenta la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misandriche (repulsione, avversione e ostilità verso il genere maschile), ed è una violenza strutturale e socialmente accettata. Esempi di maschicidio allora sono le aggressioni, gli omicidi e le violenze da parte di uomini e di donne verso altri uomini o minori in quanto maschi; l’omicidio e l’aggressione violenta da parte della partner o della ex partner per motivi legati al senso di possesso, alla custodia dei figli o agli alimenti; le morti causate dalle mutilazioni genitali come la circoncisione; l’uccisione di un uomo in rapporto intimo con una donna da parte del compagno o ex compagno della stessa che deriva dalla cultura patriarcale; la violenza sessuale contro i maschi per umiliarli o dominarli; l’omicidio degli schiavi del sesso da parte dei trafficanti; l’uccisione di un maschio da parte di uomini o di donne sconosciuti per ragioni misandriche; il contagio premeditato da parte di una donna o di un uomo di malattie sessuali o di virus quali l’AIDS.
Anche qui, come nel femminicidio, gli uomini possono essere uccisi in quanto maschi (dunque per motivi di genere) anche al di fuori dei rapporti sentimentali. Di certo in quanto maschio è stato colpito a morte Luca Varani. Ventitré anni. Generoso, solare, allegro. Così lo descrive chi lo conosceva bene. Luca è stato torturato e poi ucciso a Roma il 4 marzo del 2016 da Manuel Foffo e Marco Prato.23 Due 30enni di buona famiglia che, secondo la versione del primo, volevano uccidere «per vedere l’effetto che fa». Non una donna però, un maschio. Come loro. Quello di Luca allora non è un omicidio comune, perché Luca è stato scelto in base a una caratteristica particolare: essere maschio.
Possiamo chiamarlo maschicidio, dando a questo termine (e alle Vittime che miete) la dignità politica, scientifica e sociale che ha il corrispettivo opposto, ma con le dovute e logiche differenze? Proseguendo nel tentativo di dare una definizione al termine, continuiamo nella provocazione unendo al significato preso a prestito da Diana Russel quello di Marcela Lagarde:
Il maschicidio è la forma estrema di violenza di genere contro gli uomini, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito famigliare, o di coppia, attraverso condotte misandriche come maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, false denunce di violenza e abusi sessuali, interruzione del rapporto con i figli durante le separazioni e i divorzi, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo l’uomo in una posizione indifesa e di rischio depressione grave, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione dell’uomo stesso o in altre forme di morte violenta di uomini e bambini come: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute a uno stato depressivo non riconosciuto e non curato; malattie maschili verso le quali non sono attuate strategie di prevenzione nel disinteresse delle Istituzioni; quando vengono discriminati in quanto vittime e non ricevono ascolto, assistenza e tutela; quando subiscono discriminazioni in base al sesso o all’appartenenza al genere, che non esclude quello omosessuale.
Ovviamente la mia è una provocazione, non sta a me definire il significato del termine, ma a quella comunità scientifica, accademica e istituzionale che dovrebbe sentire l’esigenza anche etica di approfondire i fenomeni nella loro interezza e complessità. Dando a ognuno dei protagonisti la dignità e l’attenzione che merita. Una comunità però universale. Perché la violenza domestica non è un fenomeno che può riguardare solo le femministe. È qualcosa che riguarda tutti, molto da vicino. Il punto è che dobbiamo occuparci della violenza contro le persone, che siano uomini o donne.
Tratto da “50 sfumature di violenza” (Cairo 2017) si Barbara Benedettelli
SCARICA L’INDAGINE “I DATI OLTRE IL GENERE” CON NOMI E COGNOMI DI TUTTI I MORTI DEL 2017 NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI SIGNIFICATIVE
Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
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