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Barbara Benedettelli

Vittime maschili, per le femministe non se ne può parlare

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In Campidoglio si parla di uomini vittime nelle relazioni intime e il femminismo suprematista getta la maschera: di vittime maschili non si deve parlare!

Partiamo dalla cronaca:

Gemma Guerrini, presidente Commissione Pari Opportunità del Campidoglio e Filomena Cotti Zelati, presidente Commissione Pari Opportunità del municipio Roma x,  il 10 settembre scorso hanno audito l’associazione L’Altra Parte (che collabora col Centro Ankyra), che ha affrontato il tema della violenza verso gli uomini nei rapporti intimi. Una violenza, tra l’altro, riconosciuta anche nel preambolo della Convenzione di Istanbul. 

In sintesi, un’Istituzione pubblica e democratica ha ascoltato le tesi di chi affronta un fenomeno sociale da un punto di vista non convenzionale. Un punto di vista che tiene conto di un pezzo di realtà intrinseca del fenomeno stesso, di cui però “non si può” parlare. Anche se (ma forse dovrei dire soprattutto se) riconoscerne l’esistenza significa osservare un fenomeno complesso nella sua globalità e probabilmente individuare (finalmente) le corrette politiche di contrasto. Dunque, chissà, annientarlo.

Alle associazioni femministe, però, non va giù. Ed ecco un comunicato al vetriolo contro la Commissione, con l’evidente scopo di delegittimare il sacrosanto contenuto dell’audizione.

Ma perché questa contrarietà a riconoscere  un pezzo di realtà? 


Di seguito l’opinione di Fabio Nestola in merito. Cosa ne pensate?

“Il femminismo suprematista getta la maschera. Di vittime maschili non si deve parlare, punto. È questo, in sostanza, il contenuto dell’aggressivo comunicato a più firme che intende protestare per l’iniziativa della consigliera del X municipio di Roma, Filomena Cotti Zelati, rea di voler studiare anche la violenza delle donne sugli uomini.
Proteste ancora più veementi nei confronti della Commissione Pari opportunità presieduta da Gemma Guerrini, colpevole di aver innalzato il dibattito dal livello circoscrizionale alla giunta capitolina. Le barricadere non ci stanno, rivendicano un prepotente diritto di monopolio applicato a tutto: monopolio del riconoscimento istituzionale, dell’informazione, degli studi di settore, dei dati, dell’attenzione mediatica ma soprattutto monopolio dei fondi pubblici.
L’ISTAT targato Sabbadini deve pubblicare indagini conoscitive esclusivamente sulle donne vittime di violenza, il Ministero dell’Interno deve pubblicare dati solo sulle donne vittime di violenza, la Polizia di Stato deve pubblicare report esclusivamente sulle denunce delle donne vittime di violenza, i dibattiti televisivi devono pescare nei dati unidirezionali per parlare solo di donne vittime di violenza.
Non solo in Italia i fatti vengono osservati attraverso lenti rosa: all’ONU esiste il comitato CEDAW per analizzare esclusivamente le problematiche femminili, la Convenzione di Istanbul viene utilizzata per dettare regole di protezione e stanziare fondi a favore delle donne vittime di violenza. Dire che c’è anche altro non si può.
Sarebbe un guaio, per certa gente, se si cominciasse a parlare della violenza subita dagli uomini, se il fenomeno venisse riconosciuto a livello istituzionale, soprattutto se (orrore) venissero deliberati finanziamenti per uno studio di settore. La violenza femminile sugli uomini deve restare un terreno inesplorato, per poter continuare a dire che non esistono dati quindi non esiste il problema.
Del fenomeno non se ne parla perché non esiste, o non esiste proprio perché non se ne parla?
Se ho due aspetti di un problema, Alfa e Beta, e volutamente punto i riflettori solo sull’aspetto Alfa, ottengo il risultato di oscurare l’aspetto Beta che quindi nella percezione collettiva non viene visto, non esiste. Si tratta di una percezione indotta nella popolazione, sapientemente e costantemente indotta, quindi una informazione a 360° entrerebbe in conflitto col condizionamento delle coscienze.
C’è il rischio che la gente sappia ciò che non si deve sapere, e sapendo, capisca.
Questo oscurantismo feroce sa di MinCulPop, le pasionarie dicono che le vittime maschili non esistono, e se esistono sono marginali quindi insignificanti, poca roba, che vuoi che sia, non vale la pena occuparsene …
Chi studia l’estinzione del panda non viene boicottato perché è più grave l’estinzione delle balene. Chi studia le cure per l’AIDS non viene boicottato perché è più numerosa la gente che muore di tumore. Chi studia l’inquinamento da polveri sottili non viene boicottato perché le plastiche negli oceani fanno danni maggiori.
Anche perché nessuno nega che esistano il rischio di estinzione delle balene, i morti di tumore, le plastiche nei mari. Gli studiosi scelgono un settore di ricerca e lo sviluppano, tutto qui, senza negare che ne esistano altri, senza odiare chi si occupi di altro.
Solo per chi studia la violenza subita dagli uomini non è così: chi osa parlare di qualcosa di diverso dalla violenza sulle donne lo fa perché odia le donne, mistifica, distoglie l’attenzione da un problema più grave. Che è l’unico degno di attenzione. Eppure parlando di diritti umani il fattore numerico è irrilevante. Non è proibito tutelare i diritti disabili perché i normodotati sono di piùNon è proibito tutelare i diritti degli omosessuali perché gli etero sono di più Invece è proibito tutelare i diritti delle vittime maschili perché le vittime femminili sarebbero di più.
Un principio delirante valido solo per l’argomento “violenza”, che è e deve rimanere un orticello femminile e femminista; l’espressione “violenza di genere” deve condurre istintivamente a credere che ci sia un genere cronicamente vittima ed uno cronicamente carnefice. Non può esistere altro.
Poi le amiche firmatarie della protesta rispolverano l’immancabile mantra “una donna uccisa ogni 2 giorni”. Sanno dire, di grazia, quale sarebbe il femminicidio del 14 settembre, quello del 12, quello del 10 e poi dell’8, del 6, del 4 e così via, a ritroso fino al primo gennaio? Così, tanto per far coincidere i proclami ideologici con la realtà dei fatti.
In più occasioni abbiamo smentito la bufala dei femminicidi, spacciati per 170/180 all’anno e rivelatisi meno di un terzo ad una attenta verifica. La mistificazione arriva inserendo nel calderone dei femminicidi anche donne effettivamente uccise da un uomo, ma per motivi che nulla hanno a che vedere col patriarcato, l’oppressione maschilista e la prevaricazione di genere: moventi economici, rapine finite nel sangue, dispute ereditarie, tossicodipendenza, etc..
Ogni volta che pubblico un approfondimento vengo accusato di negazionismo del femminicidio, eppure dichiaro da anni di avere una posizione perfino più dura di Differenza Donna & Co.: per me anche 40 o 50 donne uccise è sempre “troppo”, anche una sola vita persa a causa della gelosia morbosa è un evento terribile che cittadine e cittadini responsabili devono condannare senza appello. Ma che bisogno c’è di gonfiare i dati facendole diventare centinaia ogni anno?
I dati devono essere monopolio della propaganda femminista, e guai a chi tenta di fare chiarezza o di dire che c’è anche altro.
Il comunicato arriva anche alla velata minaccia ”occorre scegliere da che parte stare, perché ogni ambiguità assume sapore di complicità. (…) scivoloni come quello di ieri non sono ammessi”. Ah però! Complicità in merito al reato di lesa maestà?
Siete con noi o contro di noi, non ammettiamo deviazioni dalla linea che noi pretendiamo di imporre, è questo che si legge neanche tanto tra le righe.
E infine la chiosa: dateci più soldi.
Servono altri centri “a centinaia” , altre case rifugio, altre operatrici perché il problema è uno e solo uno. L’altro non esiste perché non ci sono dati, se osate solo parlarne è uno scivolone intollerabile.
Amen.”
p.s.
Una nota rilevante. Le due donne destinatarie della protesta per aver voluto parlare anche delle vittime maschili di violenza sono l’una Presidente della commissione Pari Opportunità municipio X (Filomena Cotti Zelati) e l’altra Presidente della commissione Pari Opportunità capitolina (Gemma Guerrini). Quindi due donne che intendono il concetto di pari opportunità nella sua accezione più pura, appunto la parità, e non quale corsia preferenziale per il femminile come viene invece comunemente storpiato. Ma la parità è qualcosa che il femminismo suprematista digerisce male, meglio la supremazia assoluta anche se assume un olezzo dittatoriale.

Gli italiani al volante non rispettano il Codice della Strada

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Ecco quanti italiani non rispettano le regole del CDS (regole salvavita!). La Fondazione VINCI Autoroutes pubblica i risultati del suo 11° Barometro della Guida Responsabile e 8° Barometro europeo. Realizzata da Ipsos su 12.400 persone in 11 paesi europei, questa vasta indagine presenta una panoramica dei comportamenti degli europei al volante.

Vediamo i risultati italiani.

  • Il 70% dei conducenti italiani riconosce di non rispettare sempre le regole del Codice della strada.
  • Il 30% degli italiani ammette come probabile una parte di responsabilità in caso di incidente
  • L’86% dei conducenti italiani supera di alcuni chilometri orari il limite di velocità e il 50% passa quando il semaforo è arancione o è appena diventato rosso;
  • Il 48% dimentica di mettere la freccia per sorpassare o cambiare direzione, il 40% non si ferma allo stop e il 31% sosta in doppia fila;
  • L’8% ammette di guidare anche quando ha superato il limite di alcol consentito senza però sentirne gli effetti, il 5% dichiara di mettersi al volante avendo assunto farmaci che potrebbero alternarne la vigilanza e il 2% si mette in viaggio avendo fumato cannabis o assunto droghe.
Distrazioni
L’11% dei conducenti europei e italiani ha già avuto, o rischiato di avere, un incidente a causa dell’utilizzo del cellulare al volante. I conducenti sono molto consapevoli dei pericoli dovuti alla disattenzione alla guida: il 54% degli europei e il 71% degli italiani la identifica tra le cause principali di incidenti mortali sulle strade. Tuttavia sono sempre più numerosi i conducenti italiani che adottano comportamenti pericolosi legati agli elementi di distrazione. Nello specifico:
  • Il 57% utilizza il cellulare mentre guida con un sistema Bluetooth e il 31% imposta il GPS;
  • Il 65% ammette di distogliere lo sguardo dalla strada per più di 2 secondi – gli italiani sono i meno numerosi d’Europa ad avere questo comportamento;
  • Il 27% invia e/o legge SMS o e-mail durante la guida e il 19% segnala agli altri conducenti degli eventi tramite un’app;
  • Il 42% telefona durante la guida usando auricolari o cuffie, il 21% telefona senza vivavoce e il 5% guarda addirittura dei film o dei video sullo smartphone o il tablet.
Stanchezza alla guida
Il 12% dei conducenti europei e l’11% dei conducenti italiani ha già avuto, o rischiato di avere, un incidente perché si era addormentato alla guida. Nello specifico:
  • Il 38% dei conducenti italiani non rispetta la raccomandazione di una pausa ogni 2 ore, ma il 67% ne è a conoscenza;
  • Il 24% dei conducenti italiani ha già avuto l’impressione di essersi addormentato per qualche secondo al volante e il 13% degli italiani ha già sconfinato sulla corsia di emergenza o sulla banchina della strada a causa di un momento di disattenzione o di assopimento;
  • Tuttavia, il 21% dei conducenti italiani ritiene che si possa guidare in stato di stanchezza e il 33% lo fa effettivamente.
Distanze di sicurezza
  • Il 56% dei conducenti europei e il 53% dei conducenti italiani non rispetta le distanze di sicurezza – condizione pertanto indispensabile per preservare una buona visibilità sulla strada.
  • Il 51% dei conducenti europei e il 47% dei conducenti italiani dimentica di rallentare avvicinandosi a una zona di lavori.
QUANTI SINISTRI CON LESIONI E VITTIME PROVOCANO QUESTI COMPORTAMENTI IN UN ANNO?
Prendiamo il 2019, perché il 2020 è un anno atipico a causa del lockdown. Nell’Italia del 2019 ci sono stati 172.183 i sinistri stradali con lesioni a persone, con 3.173 Vittime (morti entro 30 giorni dall’evento) e 241.384 feriti (-0,6%).
Ripeto: 3.173 Vittime della strada e dell’inciviltà altrui e 241.384 feriti in un anno!
FORSE E’ IL CASO DI RIFLETTERE SULL’IMPORTANZA DEL RISPETTO DELLE REGOLE DEL CDS!

Giallo a Porto Sant’Elpidio

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Porto Sant’Elpidio, Fermo. Il 17 febbraio 2020 in aperta campagna, alle prime luci dell’alba un passante si imbatte in un cadavere.

E’ sull’erba di un campo sterminato. Non distante dal ciglio della strada dove c’è una scia di sangue. Ha una serie di ferite profonde alla schiena. Sembra essere stato gettato da un auto in corsa. Il suo nome è Mihaita Radu. Ha origini rumene. Aveva 31 anni e risiedeva nella bella località turistica marchigiana da tempo.

Conosciuto da tutti come Michele è stato descritto come riservato, affidabile, tranquillo. Lavorava in uno scatolificio come operaio, era volontario della Croce Verde e la sua fine brutale ha sconvolto l’intera comunità.

“Era un bravo ragazzo, lavorava sempre e quando aveva tempo libero lo trascorreva con il suo figlioletto di sei anni. Vi posso garantire che non frequentava brutte compagnie e conduceva una vita onesta, anche se in passato aveva sbagliato. Nulla lasciava presagire un fatto del genere”, afferma Stoiana, sua madre, che ancora non si capacita di quanto accaduto.

Nè riesce a individuare nel suo presente e nel suo passato, qualcuno che potesse volergli tanto male. I particolari che emergono man mano che si procede con le indagini sono agghiaccianti: è stato colpito 12 volte alle spalle con un grosso coltello e probabilmente era ancora vivo, anche se in agonia, quando è stato lasciato nel luogo del ritrovamento.

Perché di questo la Procura sembra essere convinta: non è stato ucciso lì.

Le indagini partono serrate su ogni fronte. Anche quello dei piccoli problemi avuti in passato con la giustizia, per i quali era stato assegnato ai lavori di pubblica utilità proprio alla Croce Verde, dove è rimasto. Gli altri volontari, che hanno avuto solo buone parole per lui, dicono che negli ultimi tempi era meno presente.

Che quando c’era stava spesso a quel cellulare che non si trova più. Fatto sparire perché conteneva messaggi o fotografie compromettenti per chi lo ha colpito alle spalle con crudeltà, senza che lui si potesse difendere? Ma dove è avvenuta l’aggressione?

Sulla scena del ritrovamento, a una prima analisi, non sembrano esserci tracce significative. Nulla nella casa disabitata che si trova a circa un chilometro, con un auto parcheggiata verso la strada. Nulla, al momento, nel suo appartamento. Così come risulta difficile ricostruire le sue ultime ore di vita.

Gli investigatori ascoltano i vicini di casa, gli abitanti della zona del ritrovo, i colleghi di lavoro, i familiari, gli amici. E la pista del passato, legata ai precedenti penali di poco conto, perde forza.

Anche se l’abbandono del corpo in quel campo, alla luce del sole, può far pensare a un segno di sfregio tipico della criminalità.

Lungo la statale adriatica si intensificano i controlli con pattugliamenti, posti di controllo, identificazioni. La caccia all’assassino è imponente. Niente è lasciato al caso. Si analizzano le telecamere di videosorveglianza e i tabulati telefonici per capire chi ha sentito nei giorni e nelle ore precedenti il delitto.

E tra le ultime telefonate c’è quella della ex compagna. La madre di suo figlio, dalla quale si era separato la scorsa estate. La donna viene interrogata per diverse ore come persona informata sui fatti. Perché quella telefonata? Come era il vostro rapporto? Aveva un’altra relazione sentimentale?

Le domande sono molte e lei risponde a tutto: lo avevo chiamato per farlo parlare con il bambino; non ci vediamo da tempo; non ho una nuova relazione. Eppure dalle testimonianze sembra che tra i due ci fosse attrito proprio per questo motivo.

Certo è che chi ha ucciso Mihaita è stato molto attento a non lasciare tracce. Ed è forte l’ipotesi che abbiano agito più persone, probabilmente in momenti diversi: chi ha ucciso durante un violento scatto d’ira e chi ha spostato il corpo dal luogo del delitto.

Dopo due mesi di assenza da Facebook Mihaita aveva cambiato l’immagine di copertina. Erano le 18,35 del 16 febbraio. Aveva messo la fotografia di un tramonto sulle montagne rocciose. Un’immagine che trasmette poesia, bellezza, potenza della natura e della vita. Poche ore dopo la sua esistenza è finita per sempre.

Sua madre, sempre sulle pagine del social network, fa un appello disperato alla giustizia. Quella divina e quella umana: “Io sono malata di cancro e mio figlio è stato ucciso, prego Dio di tenermi viva, per vedere gli assassini che hanno ucciso quest’anima senza pietà!!”

Non sarà facile individuare i colpevoli. Ma la Procura è fortemente motivata a prenderli per dare a Mihaita, al suo bambino e a chi gli voleva bene, giustizia.

Barbara Benedettelli

Chi è il mostro di Udine?

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Chi è il serial killer chiamato “Il mostro di Udine”, che tra il 1971 e il 1985 colpiva in Friuli?

Il mostro di Udine, misterioso assassino seriale che tra il 1971 e il 1985 ha massacrato diverse donne in Friuli, prediligeva le prostitute, usava il bisturi, non è mai stato individuato. Esattamente come il più tristemente famoso serial killer inglese Jack lo Squartatore, era mosso dall’odio misogino e sgozzava le sue vittime di cui squarciava le pance con estrema precisione.

Anche nel caso italiano l’identikit del mostro è quello di un medico. Nello specifico di un laureato in ginecologia, probabilmente schizofrenico e che per questo non ha mai svolto l’attività.

Come quell’uomo, di cui non è mai stato reso noto il nome, trovato a pregare disperatamente nei pressi della scena del crimine il giorno dopo l’ultimo raccapricciante omicidio: quello di Marina Lepre, uccisa sulle sponde del fiume Torre il 26 febbraio 1989. La quarta vittima, su almeno 12, che l’anatomopatologo nel 1995 aveva attribuito con certezza a un’unica mano, grazie all‘inconfondibile firma:

un taglio a forma di S sul ventre, fino al pube, fatto con un bisturi o uno strumento affilato che l’assassino sapeva usare con mano ferma, come farebbe un chirurgo. Ci sono poi le sevizie con lesioni da taglio rituali inferte al torace e all’addome: una nel primo omicidio, due nel secondo, tre nel terzo, tutte longitudinali; più tagli, questa volta trasversali, sono invece stati trovati sul corpo della Lepre, la sfortunata maestra di scuola elementare affetta da depressione. Tutti gli omicidi, inoltre, sono avvenuti nel fine settimana, nello stesso periodo dell’anno e in notti di pioggia.

Ora, a distanza di 30 da quell’ultimo delitto, grazie al lavoro degli autori della docu-fiction Il Mostro di Udine, andata in onda dal 22 maggio al 12 giugno scorsi su Crime Investigation (canale 119 di Sky), per i familiari delle Vittime c’è forse una concreta speranza di giustizia.

La docu-serie, che ha ricostruito la tragica fine di nove donne con lo stile di una vera investigazione, ha permesso di individuare indizi e reperti mai considerati prima.

Reperti che ora i Ris di Parma stanno analizzando con i nuovi sofisticati strumenti della scienza forense, grazie all’impulso dell’avvocato Federica Tosel, incaricata dai parenti di Maria Luisa Bernardo che, sposata a un uomo malato e madre di due figli si prostituiva per mantenerli; e di Maria Carla Bellone, 19 anni, genitori separati e schiava dell’eroina.

Tra i reperti individuati durante le riprese della docu-fiction ci sono un preservativo usato e alcuni capelli ritrovati nell’auto in cui fu uccisa con 22 coltellate la Bernardo nel 1976; uno spinello e una sigaretta trovati accanto al cadavere della Bellone, squartata nel febbraio del 1980.

E’ proprio con lei che comincia la serie di omicidi con la stessa macabra firma, seguono Luana Gianporcaro, massacrata il 24 gennaio 1983; Aurelia Januschewitz, ritrovata il 3 marzo 1985; Marina Lepre, l’unica che con la prostituzione non aveva nulla a che fare. Le altre 8 donne risultano essere state invece sgozzate, accoltellate o soffocate.

Ci troviamo di fronte a un solo killer che ha cambiato il modus operandi nel corso del tempo, oppure all’epoca in provincia di Udine circolavano due predatori?

E chi era l’uomo di circa sessant’anni che pregava chiedendo perdono a pochi passi dal luogo dove la maestra è stata sgozzata?

Si tratta di un uomo della Udine bene, laureato in medicina con specializzazione in ginecologia, ma che non esercitava a causa di gravi problemi psichiatrici. Non usciva quasi mai di casa, dove viveva con la madre e il fratello, tranne in un breve periodo in cui aveva lavorato in un ristorante dove un collega lo vide mentre con un coltello e una tovaglia mimava un taglio cesareo.

L’identikit coincide, ma non furono mai trovate prove, anche perché in quegli anni l’analisi del Dna non era possibile. Tuttavia l’uomo è stato attenzionato fino al 2006, quando è morto per cause naturali.

Lo stesso anno la figlia della Lepre, che aveva 9 anni quando la madre è deceduta, ha scoperto che quando è morta aveva tra le dita un mazzo di chiavi che non era della loro casa. Ma le indagini non portarono a nulla.

Negli anni i familiari del sospettato avevano cambiato le serrature. Nel 2012, tornata in possesso dello scialle indossato dalla madre quando fu uccisa, le indagini ebbero nuovo impulso, ma ancora senza successo.

Questa è allora l’ultima occasione per dare un volto al Mostro che nell’arco di 18 anni ha spezzato brutalmente più vite. Potrebbero confermare che il mostro è lui, oppure che di mostri ce n’erano due.

E’ solo una coincidenza che appena cinque mesi dopo l’ultimo omicidio senza “firma”, avvenuto il 3 marzo 1985, un altro serial killer ancora senza nome abbia cominciato a uccidere, soprattutto prostitute, a Modena e abbia continuato per almeno dieci anni?

Le vittime del mostro di Udine

La lunga scia di sangue inizia il 21 settembre 1971, con il ritrovamento del corpo di Irene Belletti, uccisa con 7 fendenti in diverse parti del corpo. Il 6 novembre 1972 tocca a Elsa Moruzzi, 52 anni, trovata con il cranio sfondato in un appartamento del centro. Nel dicembre del 1975 emerge il corpo di Eugenia Tilling mentre il 1976 è l’anno di Maria Luisa Bernardo, uccisa il 23 settembre. Il 3 ottobre 1979 viene assassinata con 10 coltellate la 46enne Jaqueline Brechbuller, francese sposatasi a Udine. Maria Carla Bellone, è stata squartata il 19 febbraio 1980, un mese dopo emerge il corpo carbonizzato della 18enne Wilma Ghin, scomparsa nel nulla dopo una serata in un locale. Il 24 gennaio 1983 viene trovata senza vita Luana Gianporcaro, 22 anni. Un anno dopo, il 22 maggio, tocca a Maria Bucovaz, 44 anni, strangolata con una calza di nylon. Pochi mesi dopo, il 29 dicembre, muore Stojanka Joksimovic, 42 anni, slava da anni residente a Udine. Il 3 marzo del 1985 è la volta di Aurelia Januschewitz, 42 anni. L’ultima vittima senza la firma a S. Firma che invece quattro anni dopo, il 26 febbraio 1989, è presente sul corpo di Marina Lepre.

 

di Barbara Benedettelli – Settimanale Spy 2019

Il maschicidio esiste?

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Esiste una violenza politica e fisica contro il maschio in quanto tale? Insomma, il maschicidio esiste? Proviamo a darne una definizione.  Nel solo mese di agosto 2019 tre donne hanno ucciso i loro compagni o ex compagni. Ecco i loro nomi: Francesco Armigero, 30 anni, Nicola Pizzi, 53 anni, Leonardo Politi, 61 anni.  Non ho sentito parole di sdegno, né da parte della società civile, né da parte della politica. Anzi. Sui social, quando si annuncia l’uccisione di un uomo da parte di una donna, è facile vedere una rimostranza femminile violenta e incivile.  

Allora, tenendo conto che il neologismo maschicidio è “necessario” nella misura in cui lo è quello opposto, dunque per dare dignità alle Vittime e per rendere visibile sul piano sociale e politico un fenomeno di dimensioni certamente ridotte rispetto al femminicidio, ma altrettanto rilevante. Che cos’è il maschicidio se non la “violenza sul maschio in quanto maschio”, dove il maschio è inteso come portatore di un mondo arcaico che per secoli ha visto le donne segregate, dominate e uccise, e di cui “vendicarsi”. In particolare negli ultimi tempi, possiamo parlare di odio antropologico femminile verso gli uomini?

Facciamo un gioco, che è un po’ anche una provocazione: prendiamo come buono il concetto di femminicidio di Diana Russell, descritto nel primo capitolo di “50 sfumature di violenza”, e riadattiamolo per dare una definizione di maschicidio:

Il maschicidio si estende oltre la definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte dell’uomo rappresenta la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misandriche (repulsione, avversione e ostilità verso il genere maschile), ed è una violenza strutturale e socialmente accettata. Esempi di maschicidio allora sono le aggressioni, gli omicidi e le violenze da parte di uomini e di donne verso altri uomini o minori in quanto maschi; l’omicidio e l’aggressione violenta da parte della partner o della ex partner per motivi legati al senso di possesso, alla custodia dei figli o agli alimenti; le morti causate dalle mutilazioni genitali come la circoncisione; l’uccisione di un uomo in rapporto intimo con una donna da parte del compagno o ex compagno della stessa che deriva dalla cultura patriarcale; la violenza sessuale contro i maschi per umiliarli o dominarli; l’omicidio degli schiavi del sesso da parte dei trafficanti; l’uccisione di un maschio da parte di uomini o di donne sconosciuti per ragioni misandriche; il contagio premeditato da parte di una donna o di un uomo di malattie sessuali o di virus quali l’AIDS.

Anche qui, come nel femminicidio, gli uomini possono essere uccisi in quanto maschi (dunque per motivi di genere) anche al di fuori dei rapporti sentimentali. Di certo in quanto maschio è stato colpito a morte Luca Varani. Ventitré anni. Generoso, solare, allegro. Così lo descrive chi lo conosceva bene. Luca è stato torturato e poi ucciso a Roma il 4 marzo del 2016 da Manuel Foffo e Marco Prato.23 Due 30enni di buona famiglia che, secondo la versione del primo, volevano uccidere «per vedere l’effetto che fa». Non una donna però, un maschio. Come loro. Quello di Luca allora non è un omicidio comune, perché Luca è stato scelto in base a una caratteristica particolare: essere maschio.

Possiamo chiamarlo maschicidio, dando a questo termine (e alle Vittime che miete) la dignità politica, scientifica e sociale che ha il corrispettivo opposto, ma con le dovute e logiche differenze? Proseguendo nel tentativo di dare una definizione al termine, continuiamo nella provocazione unendo al significato preso a prestito da Diana Russel quello di Marcela Lagarde:

Il maschicidio è la forma estrema di violenza di genere contro gli uomini, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito famigliare, o di coppia, attraverso condotte misandriche come maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, false denunce di violenza e abusi sessuali, interruzione del rapporto con i figli durante le separazioni e i divorzi, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo l’uomo in una posizione indifesa e di rischio depressione grave, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione dell’uomo stesso o in altre forme di morte violenta di uomini e bambini come: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute a uno stato depressivo non riconosciuto e non curato; malattie maschili verso le quali non sono attuate strategie di prevenzione nel disinteresse delle Istituzioni; quando vengono discriminati in quanto vittime e non ricevono ascolto, assistenza e tutela; quando subiscono discriminazioni in base al sesso o all’appartenenza al genere, che non esclude quello omosessuale.

Ovviamente la mia è una provocazione, non sta a me definire il significato del termine, ma a quella comunità scientifica, accademica e istituzionale che dovrebbe sentire l’esigenza anche etica di approfondire i fenomeni nella loro interezza e complessità. Dando a ognuno dei protagonisti la dignità e l’attenzione che merita. Una comunità però universale. Perché la violenza domestica non è un fenomeno che può riguardare solo le femministe. È qualcosa che riguarda tutti, molto da vicino. Il punto è che dobbiamo occuparci della violenza contro le persone, che siano uomini o donne. 

Tratto da “50 sfumature di violenza” (Cairo 2017) si Barbara Benedettelli

 

SCARICA L’INDAGINE “I DATI OLTRE IL GENERE” CON NOMI E COGNOMI DI TUTTI I MORTI DEL 2017 NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI SIGNIFICATIVE 

Violenza domestica i numeri oltre il genere

Recensioni di ’50 Sfumature di Violenza’

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’50 Sfumature di violenza. Femminicidio e maschicidio in Italia’ (Cairo) di Barbara Benedettelli. La violenza domestica a 360 gradi. Recensioni dei lettori

Da Amazon libri

Il libro tocca un argomento tabù della nostra società: la violenza di genere e’ tuttora associata ad un solo genere, quello maschile. Il libro pone domande su questa forma di discriminazione che e’ accettata senza discutere. Il libro offre dati fattuali, senza pregiudizi. L’autrice e’ estremamente coraggiosa. Vivamente consigliato

Antonio Gulli

 

E’ vero che “lo dice pure la Convenzione di Istanbul”, ma è anche vero che in Italia, suo tempo, le forze politiche pro adesione alla Convenzione più attive nell’azione sulle Camere, puntarono molto su una menzogna misandrica, allora molto in voga e divulgata presso tutti i media come fatto accertato e inconfutabile, secondo la quale la violenza maschile sarebbe la prima causa di morte delle donne in Italia: più del cancro, più degli incidenti stradali. Dunque: Convenzione di Istanbul sinonimo di difesa delle donne dalla dilagante violenza maschile. Chiunque sia capace di far uso di discernimento critico e abbia un po’ di esperienza sulle cose del mondo, è perfettamente in grado di rendersi conto di quanto la moderna narrazione della violenza domestica sia pesantemente falsata da fanatismi e censure ideologiche. Il libro di Barbara Benedettelli è una ventata di aria fresca, di lucida obiettività in un contesto oggi quasi totalmente viziato da fanatismi, ipocrisie esagerazioni e menzogne vere e proprie. Le cose che ho apprezzato di più (ma ce ne sono tante altre) sono la perfetta consapevolezza che la violenza domestica è, per lo più, una spirale in escalation di reciproche violenze non legate a un sesso o a un genere (dove alla fine “prevale” chi è costituzionalmente più forte), l’onestà intellettuale animata da intenti decisamente positivi (l’obbiettivo di fare davvero qualcosa di concreto per contrastare la violenza di genere prendendola per quello che è, senza pregiudizi sessisti) e l’intelligenza con la quale perseguire questa strategia, ossia senza attaccarsi a costrutti e teoremi alla moda o di segno opposto a quelli che vanno per la maggiore, ma prendendo tutto quello che c’è di buono in ciò che è stato fatto anche da chi porta avanti battaglie drogate dall’ideologia. La Convenzione di Istanbul, così come l’azione dei centri anti violenza, pur essendo spesso promossi da persone animate da forti sentimenti misandrici, grazie a un approccio intelligente come quello dell’Autrice, possono diventare forti strumenti di tutela delle tante sconosciute persone di sesso maschile oppresse dalla violenza di genere. 50 Sfumature di violenza dovrebbe davvero essere letto da tutti.

Michele Serra

 

Ben scritto e ricco di particolari e precisi riferimenti questo libro accende uno spiraglio di luce sul lato oscuro della comunicazione e della cronaca. Leggere è un arricchimento, leggere qualcosa che, normalmente, viene sottaciuto moltiplica questo aspetto. 

Maurizio

 

La ricerca di Barbara Benedettelli in questo saggio è minuziosa ed illuminante. Attestare che il fenomeno della violenza domestica non sia senso unico, e fornire un quadro concreto delle conseguenze che essa determina in seno ai crimini che al suo interno vengono commessi, è un esercizio di grandissimo valore in questo momento storico. Anche le donne possono essere carnefici. Consegnare a tutti noi questa visione, che vede non soltanto la donna “vittima” della violenza, ma bensì anche l’uomo, è un atto dovuto, ed anche coraggioso. Ciò che emerge dai tanti racconti, e dalle testimonianze meticolosamente incasellate nel viaggio che attraversiamo leggendo le pagine del libro, è un pugno allo stomaco incredibile, una visione a 360 che non lascia spazio ad equivoci. Esiste il “maschicidio”, temine coniato e provocatoriamente descritto nel libro, e la sua genesi ha una connotazione altrettanto violenta, se non volte anche superiore, alla violenza domestica maschile. Alla fine della lettura del libro, viene naturale assimilare i due fenomeni come parte di un unico problema sociale. Ed è questa la grande forza e vittoria di questo saggio. Oggi siamo condizionati sicuramente dalle notizie, ed abbiamo una visione soggettiva ancorata a stereotipi consolidati, per cui viene facile indirizzare il nostro giudizio. Confesso realmente che io per primo, prima di leggere il libro, non avevo alcuna idea che dietro la parola “violenza domestica” fosse presente una così alta quantità di fenomeni che vedono la donna carnefice. Non avevo alcuna idea della violenza che potesse perpetrare una donna, nei tantissimi modi, sia fisica, che psicologica, sino a quella definitiva della morte. Ora ho una prospettiva completamente diversa. Ora ho consapevolezza che stiamo affrontando un fenomeno molto più vasto di quello che conosciamo. L’autrice non ci da risposte. Ma ci fornisce innumerevoli spunti di riflessione uniti documenti di natura scientifica e statistiche puntuali che ci consentono di esplorare le mille sfaccettature della violenza domestica, fra matricidi, patricidi, figlicidi, e così via. E’ un libro importante. Pioniere nella visione a tutto tondo di un fenomeno che nel tempo ha visto indubbiamente una escalation drammatica, ma del quale effettivamente le cronache fanno cogliere solo pochi dei tanti aspetti. L’autrice non certo tende a sminuire la drammaticità e l’efferatezza del fenomeno del cosiddetto “femminicidio”, che ha numeri enormi, ma tende a sottolineare l’importanza e la necessità di dover analizzare sotto il profilo sociale il fenomeno degli omicidi in ambito domestico nella sua interezza. Pilastro indiscusso è la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia il 27 giugno del 2013 che “pur mettendo in primo piano la tutela della donna in virtù del numero sproporzionato di vittime, inserisce per la prima volta, in un trattato internazionale la possibilità che sia violenza femminile contro gli uomini”. Lo fa in primis utilizzando qualifiche neutre come “partner o coniuge”, tenendo quindi come giustamente sottolinea l’autrice, conto di tutti. Ed è quel “conto di tutti” che deve farci da guida nella comprensione, analisi e presa di coscienza di questa piaga sociale, se vogliamo debellarla, definitivamente. Un libro che raccomando a tutti, perché ci consegna una verità che oggi, da nessuna parte, è descritta così ampiamente e meticolosamente.

Roberto Furesi

 

Libro molto coraggioso e controcorrente. Mi piace lo stile di Benedetteli, totalmente de-ideologizzato, asciutto e aderente alla realtà dei fatti. Mi piacciono l’introspezione psicologica e l’approccio al problema, che è globale e riguarda tutti (contrariamente alla vulgata femminista che addebita a una sola parte la responsabilità del “tutto”). Probabilmente il crollo dei legami tradizionali, il punto di rottura e la torsione sentimentale che determina grande sofferenza e qualche volta, sbocchi violenti, sono purtroppo dovuti a quello che la Benedettelli indica molto bene, al passaggio generazionale ( si giustappongono esperienze di nonne, madri, fino all’autrice che porta la sua esperienza personale). Insomma vi è una crisi nei rapporti personali che appare quasi insolubile; le contrapposizioni dialettiche non aiutano. Crisi che ormai è percepibile attraverso il contatto con l’altro genere e con la sotterranea inadeguatezza dei tradizionali schemi. Una crisi che appare accelerata dall’incitamento allo scontro e alla violenza come sbocco contro l’altro sesso che risulta evidente nell’attuale femminismo 2.0 . Il giudizio è lusinghiero su un libro che scopre una “realtà criminale” nascosta per tanti anni per comodità come la polvere nera sotto il tappeto buono di casa …

Giannetto

 

Il libro di Barbara Benedettelli è una ventata di aria fresca. L’onestà intellettuale della scrittrice viene ben accentuata nelle pagine del libro

Max

 

Libro molto interessante, documenta abbastanza bene l’argomento e fa ben capire che il problema non è affatto unidirezionale uomo-donna ma è molto più grave e radicato. Recupererò altri libri dell’autrice, che ha un bel modo di scrivere, molto scorrevole.

Stefano P

 

Libro sconvolgente, equilibrato ed estremamente illuminante sotto più punti di vista! Ben strutturato, a tratti lo stile è romanzato e avvincente, specie quando l’autrice narra la storia della sua famiglia per dimostrare come la cultura sia cambiata in pochi decenni e non si possa dare la colpa di ogni male a quella patriarcale, che secondo chi scrive è solo una delle cause e non la principale della violenza contro le donne. Si vede che l’autrice si occupa da tempo di questi temi che qui affronta con una visione a 360° che non tralascia niente e nessuno. Finalmente ho capito cos’è il femminicidio che viene semplificato dai media e dalla propaganda e anche che cosa non lo è. Inquietante la parte relativa ai maschicidi ( la più ampia e documentata perché come spiega l’autrice è un fenomeno nascosto e merita di emergere ). Mai avrei pensato che anche un uomo può subire maltrattamenti anche fisici e continuati nel tempo esattamente come accade per le donne! Nel libro si fa anche un’analisi sociologica e filosofica ( oltre che politica) relativa al nostro tempo, all’incapacità i amare, alla logica di mercato che investe anche le relazioni. Si parla di figli che uccidono i genitori, di genitori che uccidono i figli, di anziani maltrattati e di depressione che porta al suicidio o all’omicidio. Si parla di quei divorzi che diventano guerre senza esclusioni di colpi e lo si fa con grande rispetto per le persone coinvolte. Si parla poi delle leggi sulla violenza domestica che come ben spiega l’autrice non vede solo le donne come vittime e della Convenzione di Istanbul che tutela anche uomini, anziani, bambini. Non sono d’accordo con la recensione in cui si dice che è ripetitivo, io l’ho trovato interessante e illuminante fino all’ultima pagina. Semmai insiste molto su alcuni aspetti del fenomeno che vede gli uomini vittime per dimostrare, senza ombra di dubbio, attraverso decine di dati, di testimonianze, di notizie estrapolate dalla cronaca locale che questa è una realtà concreta, più vasta di quello che crediamo e che deve essere presa in seria considerazione.

Carlo Piccinini

 

Un libro molto molto interessante che destabilizza quelli che sono gli stereotipi della vita dove è sempre e solo l’uomo commettere violenze sulla donna; dove appare impensabile, quasi incomprensibile, che i “ruoli” si possano invertire; ma è anche così…facciamocene una ragione..

Giuseppe

 

Da Google Libri

Nelle prime pagine, ho avuto una sorta di stizzimento, che, col proseguito della lettura, si è trasformata, in un’incontrollabile fame di “sapere”, o meglio, scoprire un libro che sostiene il mio pensiero, formatosi negli ultimi sette anni. Essendo attiva nel sociale, ho riscontrato questa mera realtà, ma che, senza dati ne statistiche, non riuscivo a trasmettere in parole semplici. Io grande amante della lettura, purtroppo, causa deficit cognitivo, provocato da una patologia invalidante, seppur non riconosciuta tale, chiamata Fibromialgia, che mi ha portato a rallentare la capacità di lettura.  Se prima un libro lo finito in una settimana, massimo due, a seconda degli impegni di madre lavoratrice, unico punto di riferimento per i miei figli ormai adulti, mi ritrovo ad impiegare anche un anno per finire un libro. Ho bevuto di un fiato, forse in 20 minuti, dovendo tornare ogni tanto indietro perché perdo la concentrazione, sono arrivata al punto dove mancano alcune pagine del libro. Mi sono fermata, perché ho intenzione di comprare il libro, o l’e-Book, perché sento questo libro vestito sulla pelle, di cui non voglio perdere nemmeno una pagina. Non ho ritenuto opportuno continuare la lettura per questo. Lo consiglio VIVAMENTE, a TUTTI! Di qualsiasi sesso, ed età, logico, con un’età adeguata alla comprensione, non tanto al dato anagrafico. Non sminuisce il dramma del femminicidio, tutt’altro, ne sviscera le origini, offre la visione dell’altro lato della medaglia, che raramente, a meno che, non vivi il sociale come volontariato, o come operatore, si ritrova negli stereotipi odierni. Senza santificare né beatificate, uno o l’altro sesso. Lo trovo indispensabile, da passare ai propri figli, come ausilio di educazione verso il sesso opposto, ma forse nei confronti del nostro prossimo stesso. Incuriosita dalla presentazione di questo libro, che scimmiotta volutamente, i tre best sellers, fa riflettere profondamente su questa nuova realtà. Per capirci, non esiterò ad acquistarlo. Forse, quei pochi cerchi rimasti aperti, troveranno la loro chiusura, ed io potrò far finalmente pace coi miei sentimenti contrastanti. Vi invito quindi ad aprire il link e scorrere le pagine. A voi poi, la decisione di leggerlo a puzzle, o acquistarlo per leggerlo e rileggerlo.

Anastasia Adinolfi

 

Strumentalizzazione e contraddizioni del #MeToo

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La deriva e gli errori del #MeToo tra strumentalizzazione e contraddizioni. Del #MeToo condivido la base di partenza, ovvero la denuncia di chi abusa del proprio ruolo di potere per ottenere vantaggi. Ma ne contesto la deriva, la strumentalizzazione, l’estremismo e le contraddizioni.

Ne contesto l’averne fatto una battaglia solo per donne, contribuendo ad alimentare la guerra tra i sessi dove tutti gli uomini, in quanto tali, sono inseriti nella categoria dei mostri, e tutte le donne, in quanto tali, in quella delle fragili vittime inconsapevoli e incolpevoli. 

Detesto il fatto che abbiano trasformato quello di vittima (donna ovviamente) in uno status sociale. Una condizione sulla quale costruire un’identità e – in alcuni casi – una carriera e una fonte di guadagno. Oppure il pretesto per attuare inaccettabili discriminazioni positive

Io che combatto da molto prima del #MeToo accanto alle Vittime di ogni forma di violenza (e di ogni genere), trovo tutto questo uno sfregio alle Vittime vere. Quelle con la V maiuscola che in questo ruolo non vogliono starci – anche se lo sono davvero -, perché se lo fanno sentono di avere perso contro il/la loro carnefice. Che sia il/la più grande produttore di Holliwood o il/la direttore di un supermercato.

Detesto la presunzione di superiorità morale di questo femminismo ideologico, sessista, misandrico e opportunista che, per dirla con la giornalista britannica Laurie Penny, “ha bisogno di radersi le gambe e di un nuovo taglio di capelli”.

Donne e uomini sono in primis esseri umani. Lo sono prima ancora di essere generi. E  gli esseri umani quando hanno potere e povertà morale insieme, ne abusano per trarre vantaggi  indipendentemente dalla propria appartenenza sessuale. In modalità simili o diverse poco importa. 

Il loro resta un abuso di forza che, lo ripeto, come ben spiega il vocabolario Treccani si può verificare anche attraverso parole, sevizie morali, ricatti che possono costringere o indurre una persona ad agire o a cedere contro la propria volontà.

È allora necessario fare una sintesi e individuare un paradigma inclusivo e condiviso uscendo dalla supremazia di una conoscenza frammentata (e ideologizzata), che impedisce di vedere le molte radici da cui tutto ha origine, tutte le vittime e tutti i carnefici.

Come sostiene il filosofo Edgar Morin ne ‘I sette saperi necessari all’educazione del futuro’:

«se può esserci un progresso di base nel XXI secolo, sarà quello per cui gli uomini e le donne non saranno più vittime incoscienti non solo delle loro idee, ma anche delle menzogne nei confronti di sé»

 

Barbara Benedettelli

 

Vittime maschili di violenza sessuale, non credute se maschi?

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Jimmy Bennet tra le vittime maschili di violenza sessuale? Se così fosse, non credibile come vittima in quanto maschio? Il tema di questo articolo è la percezione sociale e la strumentalizzazione mediatica rispetto alla possibilità che gli uomini possano essere vittime di forme di violenza che vedono come autrici le donne. Il caso specifico è stato trattato in una trasmissione televisiva e quanto emerso è la base delle riflessioni che seguono.

Jimmy Bennett se fosse stato femmina dopo (e durante) l’intervista di Giletti a Non è l’arena avrebbe subito un trattamento diverso. Si sarebbe parlato di coraggio nel denunciare; il presunto abusante sarebbe stato definito uno “schifoso pedofilo”; si sarebbe parlato di plagio su persona in stato di minorata difesa a causa dell’età, del rapporto di fiducia e anche per aver bevuto.

Perché Jimmy Bennett dice di aver bevuto lo champagne che Asia gli avrebbe offerto prima di essere abusato sessualmente. Però, per chi non lo ritiene credibile – in quanto maschio –, in quale quantità è irrilevante. Eppure – se quanto afferma è vero – l’assunzione di bevande alcoliche può comportare “uno stato di infermità psichica” che in un tribunale ha valore e di cui spesso si dibatte sempre in caso di violenza sessuale sulle donne. Uno stato che potrebbe anche spiegare questo selfie pubblicato dalla rivista TMZ. Un selfie che sarebbe stato scattato dopo il presunto rapporto incriminato e che per i legali di Bennett sarebbe la prova che un rapporto sessuale c’è stato.

In California, dove il fatto sarebbe accaduto, andare a letto con un minore di 18 anni è reato anche se è consenziente. Jimmy sostiene che consenziente non lo era; che è stato indotto a fare sesso; che c’è stato un abuso di potere. Quello stesso abuso di potere condannato con forza dal #MeToo e dalla stessa Asia (che contesta ogni parola del ragazzo). Ma Jimmy Bennett è maschio, dunque in quanto tale non gli si crede. Allora ecco che durante la trasmissione Non è l’arena il selfie viene commentato così:

Scusa ma non sembri scosso, in questa foto non sembri essere traumatizzato. Non assomigli a qualcuno che ha paura“. Qui, prima di procedere, apro una parentesi (Asia, intervistata da Giletti la settimana dopo di Bennett, smentisce tutto e aggiunge: Sono rimasta pietrificata, mi ha assalita e abbiamo avuto un rapporto senza preservativo durato due minuti e mezzo. Ho provato le stesse sensazioni di quando mi stuprò Weinstein“. 

Però Giletti, guardando il selfie, non le ha fatto la stessa domanda che invece ha fatto al ragazzo. Perché non permetterle di dare la sua versione dei fatti? La violenza sessuale di cui parla Jimmy Bennett viene messa in discussione da Giletti anche per un altro motivo, in linea con lo stereotipo del maschio virile e sempre pronto al sesso:

Un maschio non può essere violentato da una donna perché in un rapporto sessuale ha un ruolo attivo”.

Insomma, deve avere un’erezione perché vi sia un rapporto completo. Vero, ma è vero anche che l’erezione può essere involontaria: può essere provocata da quei toccamenti, sfioramenti e baci che Bennett dice di aver ricevuto lasciandolo confuso e disorientato. Donne e uomini hanno delle zone del corpo definite erogene che se stimolate possono comportare reazioni fisiologiche indipendenti dalla volontà: l’erezione per l’uomo, la lubrificazione vaginale per la donna. E quando succede – e succede – l’uno e l’altra si sentono come traditi dal proprio corpo, che possono arrivare odiare, al punto da compiere atti di autolesionismo. Si colpevolizzano e vengono soffocati dal senso di colpa. Cadono in una depressione dalla quale non possono uscire da soli.

Una donna che trova il coraggio di parlarne riceve conforto, sostegno e aiuto. Un maschio – abusato da un uomo, oppure da una donna che lo ha manipolato psicologicamente, o indotto attraverso il potere di seduzione femminile – si vergogna. Non denuncia. Non si confida. Se lo fa non viene creduto, è ritenuto omosessuale, viene schernito e isolato.

Eppure quanto sarebbe accaduto a Bennet, che sarebbe poi stato confermato da Asia attraverso un accordo stragiudiziale di cui parlerò più avanti, ha a che fare in primis con la libertà personale. Della quale ognuno ha il diritto di disporre come crede, anche se le costruzioni di genere non lo consentono.

  • La violenza sessuale nel nostro ordinamento

Prendiamo ad esempio la vicenda che ha portato Asia Argento a denunciare colui che ha definito orco, ovvero Harvey Weinstein. Foto dell’attrice e del produttore cinematografico insieme anche successive al presunto abuso subito da lei ce n’è più di una. Ma questo non le ha impedito di diventare la paladina mondiale del #MeToo.

Dire ad Asia le stesse parole dette da Giletti a Bennet non si può: “Scusa ma non sembri scossa, in questa foto non sembri essere traumatizzata. Non assomigli a qualcuno che ha paura“. Si farebbe – parole sue – “victim blaming” (colpevolizzazione delle vittime) perché, e lo dico ancora con le parole dell’attrice e regista, “non c’ è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza“. E sono d’accordo! Ma…

Cominciamo con il sostituire la parola donne con la parola personeCome fa il nostro Ordinamento giuridico, che configura il reato di violenza sessuale quando una persona è costretta a fare sesso contro la sua volontà per costrizione, ma anche per induzione (art. 609 bis, comma 2 n. 1 c.p.). Ovvero con la manipolazione psicologica della vittima. Una manipolazione alla quale possono essere legati toccamenti a sfondo sessuale, anche “insidiosi e rapidi, purché ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente, come ad esempio palpamenti, sfregamenti, baci, che appunto possono stimolare nell’uomo e nella donna una reazione riflessogena.

Mi meraviglio che fior fiore di giornalisti si affidino ai pregiudizi sessisti anziché al diritto, interessato tutelare “la libertà personale dell’individuo che deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale.”

Si può (e si deve), dunque, parlare di violenza sessuale anche quando la vittima è maschio, anche quando non c’è costrizione fisica; quando c’è erezione involontaria; quando un maschio si ritiene abusato da una donna, anche se bella, che lo oggettifica per ottenere un vantaggio. 

Jimmy merita ascolto innanzitutto come persona. E merita anche giustizia, che nel suo caso sarebbe arrivata attraverso un accordo stragiudiziale che ha stabilito, legalmente, un risarcimento economico. 

 

  • L’accordo stragiudiziale tra Bennett e Argento

Secondo il New York Times, che ha reso pubblico l’accordo economico che sarebbe intercorso tra le parti per il presunto abuso del 2013 – e che Asia (o chi per lei) avrebbe in parte liquidato -, non prevederebbe il silenzio delle parti sull’accaduto. Se è così, non si tratta di una sorta di estorsione, come fatto intendere dai media soprattutto italiani. La legge della California non consente accordi di non divulgazione nei contratti civili che coinvolgono il tipo di accuse formulate. 

Come ha cercato di spiegare a Giletti il legale del ragazzo Gordon Sattro, si tratta di un accordo scaturito dalla procedura richiesta dalla legge in casi simili per fare una denuncia. Procedura che comporta una comunicazione preliminare tra le parti per provare a evitare il giudizio, ma che può anche essere argomento di prova in un processo. L’accordo a cui sarebbero arrivati i legali di Bennett e Argento, stabilirebbe una forma di risarcimento in sede civile per “l’inflizione intenzionale di sofferenza emotiva, salari persi, aggressione e violenza”. Risarcimento che lei avrebbe in parte pagato. 

Tra le prove atte a dimostrare l’abuso di potere (che è una violenza morale di per sé), allegate a sostegno delle accuse del ragazzo, ci sarebbe anche un tweet della Argento successivo all’incontro: “Jimmy sarà nel mio prossimo film e questo è un dato di fatto…”. Però nel film Incompresa del 2014, da lei scritto e diretto, Jimmy non c’è. 

Sull’abuso di potere Jimmy ha le idee chiare: Io Amo il mio lavoro di attore, ero pronto a cogliere qualsiasi opportunità e Asia ha abusato del suo potere portandomi in quella stanza di hotel… Il MeToo punta il dito contro chi abusa del proprio potere e io ho provato la stessa sensazione descritta da tante attrici che accusavano il produttore… Io credo che Asia abbia adottato lo stesso schema di Weinstein… c’è una perfetta corrispondenza: ha fissato un appuntamento in hotel… io avevo 17 anni e non immaginavo una cosa del genere.”

E’ grazie al MeToo, dunque, che si è reso conto di avere subito quel tipo di violenza e che ha deciso di denunciare. Ma Giletti, e non solo, trova che il paragone tra Asia e Weinstein non regga. Davvero?

Perché ci sia abuso di potere non occorre essere il più grande produttore di Holliwood. Anche il proprietario (o la proprietaria) di un bar può abusare del suo potere di dare o non dare il lavoro a un/una dipendete che ne ha bisogno per vivere. Se riteniamo che Weinstein non sia paragonabile ad Asia allora il MeToo non ha davvero più senso. Se mai ne ha avuto uno, al di fuori dello Star System.

Barbara Benedettelli  

Gender X per i neonati? Un sopruso

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Gender X per i neonati? Un sopruso. Inaccettabile l’imposizione alla nascita. So bene di toccare la natura complessa dell’identità sessuale e di quella costruzione sociale che abbiamo chiamato genere. E posso capire che per alcune persone, che non riescono a identificarsi con quella costruzione sociale corrispondente al sesso biologico, sia fondamentale un riconoscimento legale che ponga fine a una guerra forse più con se stessi che con una società aperta come quella odierna.

Ciò che trovo aberrante è che chi chiede la licenza di essere ciò che sente di essere, al di la di quello che volente o nolente è per natura, tolga questa licenza ai nascituri. È questa la vera novità della legge newyorkese sul Gender X: la possibilità per i genitori di mettere una X al posto del sesso biologico nel certificato di nascita.

Chi chiede rispetto e dignità, come coloro che hanno voluto questa legge, nega rispetto e dignità a un piccolo essere inconsapevole. Quello di cui non si tiene conto è che mascolinità e femminilità sono in primis un determinismo biologico (o genetico) al quale non possiamo rinunciare se non vogliamo rinunciare alla nostra umanità. Un determinismo che femministe e parte delle persone Lgbt vogliono invece annullare sul piano politico e culturale.

Quale miglior modo di utilizzare una X, in cui sono rinchiusi tutti i generi esistenti (almeno 23 per la Human Rights Commission) compresi maschio e femmina?

Il binomio uomo/donna, mal sopportato da minoranze che pretendono di modificare un’intera cultura secondo ideologia, quella «categoria binaria» ritenuta una forma di oppressione, rappresenta invece la nostra essenza.

Il corpo è dell’individuo e deve rispondere solo al suo libero arbitrio, ma in quell’equazione straordinaria che è la natura il corpo umano è anche humus della vita. E quello di un neonato non appartiene a chi lo ha generato.

Il corpo umano non è un contenitore vuoto. È un pezzo di ognuno di noi senza il quale la nostra esistenza non è possibile. Ed è un dono della natura, che si può accettare o rifiutare quando si è abbastanza grandi da poter scegliere, ma che non può essere negato per ciò che è a un bambino che nasce.

Quella X è una dichiarazione politica, non può essere ciò che determina l’identità di una nuova esistenza, le cui uniche X da riconoscere per rispettare la sua dignità e la sua umanità, sono quelle genetiche: XX Femmina, XY Maschio.

Barbara Benedettelli (pubblicato su Il Giornale)

Immigrazione, giustizia e buonismo

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Giustizia sfumata nel buonismo di chi è per l’immigrazione incontrollata. Dov’è finita la mia bella Rimini? Dov’è la Romagna felix che trent’anni fa potevo girare in lungo e in largo da sola, giorno e notte, senza paura?

La scorsa estate sulle stesse spiagge nelle quali da adolescente correvo felice anche la sera, c’è stato uno stupro da arancia meccanica. Pochi giorni fa, all’alba, una giovane turista ha subito una terrificante violenza in uno dei viali di maggiore passaggio che legano la Rimini felliniana a quella che un tempo era chiamata la Perla Verde: Riccione.

Quante volte, a vent’anni, l’ho percorsa in bicicletta mentre sorgeva il sole, per andare a mangiare bomboloni sulla battigia. Luoghi dell’anima, oggi Off Limits. Oggi i bagnini sono costretti a pagare guardie armate. Ieri si tirava tardi per fare il bagno nel mare nero, stupendosi ogni volta del bianco dei corpi baciati dalla luna. Ho festeggiato cosi il mio diciottesimo compleanno.

Ricordo la corsa gioiosa fino a riva per tuffarsi per primi in quel mare che mi aveva accolta già a pochi giorni dalla nascita. Adesso si rischia la vita. Oggi le spiagge, come le strade, in certi orari sono diventate terra di nessuno, dove “nessuno” sta a indicare quegli uomini senza nome, senza patria, senza freni che arrivano proprio dal mare.

Alcuni di loro sono brave persone in cerca di una vita migliore. Che però dovrebbero cercare seguendo vie legali. Altri, non molti secondo le statistiche, scappano dalle guerre che ancora devastano il mondo.

Poi ci sono i delinquenti. Quelli che non scappano dalle guerre, ma dalle prigioni, dalla polizia del loro paese, oppure da altri delinquenti ai quali hanno fatto torti. Qui ci vengono certi dell’impunità. Liberi di rubare beni e corpi da sfruttare o intere esistenze.

Il bengalese che ha violentato la turista danese lo scorso 26 agosto, era già stato denunciato tre volte per lo stesso reato. Perché era libero? Per quanto riguarda i reati più schifosi contro la persona la percentuale di stranieri è allarmante se paragonata al numero di coloro che sono entrati legalmente o meno nel nostro paese. E’ un fatto.

Prendiamo le denunce e i dati del Viminale (non consolidati) tra l’1 agosto 2016 e il 31 luglio 2017: 3.942 violenze sessuali di cui il 37,5% commesse da stranieri. Significa che 1480 persone non sarebbero state vittime se non fossimo un paese masochista. Come giustifica questi delitti chi è per l’immigrazione incontrollata? E’ fisiologico? E un male necessario?

In questi giorni al mare in Versilia mi sono spesso sentita a disagio in costume di fronte ai cosiddetti vucumprà, che per riposarsi sceglievano tranquillamente una tenda libera dove si accomodavano senza dover pagare, come invece fanno i comuni mortali con regolare iscrizione all’anagrafe, anche tributaria.

Ti guardano, ti scrutano. Per alcuni di loro una donna in bichini è un invito. Così mi sono vestita, perdendo un pezzetto della mia libertà. Quando due poliziotti hanno provato a mandarli via sono stati subito accerchiati. Un nordafricano ha sputato a uno dei due dicendo, ai poliziotti, che loro lì non ci possono stare. I poliziotti non ci possono stare, capito?

Chi ha assistito alla scena, me compresa, ha avuto paura. Dopo pochi minuti i venditori abusivi hanno ricominciato il loto tour per vendere merce contraffatta. Solo questo, tra l’altro, un reato penale. Che però, “in quanto immigrati clandestini”, loro evidentemente possono svolgere alla luce del sole. In barba alla legge, anche grazie a quei clienti fissi che se ne fottono delle regole in nome di un presunto buon cuore.

Tutto questo è giusto? Perché alla fine non si tratta di razzismo ecc.. Ma di giustizia. Di sicurezza. Di libertà. Io le vedo sfumare sempre di più.

Barbara Benedettelli