X

Barbara Benedettelli

Barbara Benedettelli è giornalista, saggista, attivista per i diritti delle Vittime di ogni forma di violenza.

Gender Pay Gap. C’è davvero discriminazione?

8687 views
5 mins read

Gender Pay Gap, che cos’è? C’è davvero discriminazione? “Le donne in Italia sono sempre meno pagate dei maschi”, “Ecco quanto guadagnano meno degli uomini a parità di incarico”, “Ancora oggi le donne vengono pagate meno degli uomini”. Questi titoli di alcune autorevoli testate rispecchiano la realtà?

C’è davvero una discriminazione endemica verso le donne in quanto tali sul lavoro? Può davvero accadere in un paese dove la maggior parte delle professioni è regolata da contratti collettivi e la parità di trattamento è prevista dalla Costituzione e dalla legge (D.Lgs 165/2001, 198/2006, 903/1977, 125/1991)?

Il Gender Pay Gap rappresenta la differenza tra lo stipendio medio degli uomini e delle donne che hanno un lavoro dipendente. Si misura attraverso la differenza tra le retribuzioni orarie medie dei lavoratori di un sesso e dell’altro, espressa come percentuale della retribuzione media oraria lorda maschile.

Alcune fonti mettono in un unico calderone cassieri esperti, part-time e alle prime armi; direttori, segretari, operai, manager di multinazionali; maestri e professori; chi fa straordinari e chi no; chirurghi e infermieri ecc.. Sommano gli stipendi per genere, individuano la linea mediana, la paragonano alla media degli stipendi maschili e il gioco è fatto!

Allora il Gender Pay Gap dà una visione veritiera della realtà per quanto riguarda il salario? Non può. Perché non tiene conto di variabili come i tassi di occupazione, i settori di attività e le mansioni, i congedi, gli straordinari, il part-time (che da solo incide con un -21,3%), ecc..

Ciò che il Gender Pay Gap ci dice è che il mondo femminile ha un reddito inferiore a quello maschile nel suo insieme. Il motivo dipende da fattori quali la scelta del tipo di attività, il tempo che vi si dedica, la continuità nel mondo del lavoro.

Per l’Onu il Gender Pay Gap globale è del 23%. Eurostat lo indica per l’Europa nel 14,1%, per l’Italia nel 4,7%. La società di consulenza aziendale Korn Ferry, che dispone di uno dei più grandi database del mondo con oltre 12,3 milioni di dipendenti in 14.284 aziende di 53 paesi, ha fatto una rilevazione globale e una minuziosa, ottenendo risultati molto diversi.

Confrontando la retribuzione tra i sessi in generale emerge che gli uomini sono pagati in media il 16,1% in più delle donne; valutando lo stesso livello di lavoro (niente calderone), il divario è sceso al 5,3%; valutando stesso livello e stessa azienda si riduce all’1,5%; con stesso livello, stessa azienda e stessa funzione, si arriva allo 0,5%.

La statistica non è matematica, se pure se ne avvale. Cambiano le fonti e le metodologie, cambiano i numeri, che vanno interpretati con molta onestà intellettuale. Mentre la disparità di salario si può rilevare solo confrontando le buste paga di due individui di sesso diverso nella stessa identica condizione lavorativa, per avere un’idea realistica del Gender Gap e comprendere il perché delle diverse scelte dei due sessi con conseguenze sull’autonomia finanziaria, l’Onu ritiene occorrano ben 72 indicatori relativi alle diversità e specificità.

Inoltre è necessario riconoscere la complessa interazione tra sesso e genere, perché uomini e donne non sono solo frutto di stereotipi. Sono anatomicamente diversi, anche a livello cerebrale. Lo dimostra uno studio del National Institute of Mental Health. Grazie a migliaia di risonanze magnetiche, studi di neuroimaging, analisi di tessuti cerebrali di donatori deceduti, lo studio rileva che la diversa anatomia cerebrale incide sui comportamenti e che è improbabile che i fattori ambientali siano primari nel modellare le differenze comportamentali.

E se è così, una quota di Gender Gap è ineliminabile. Per esempio le donne (salvo eccezioni) nell’ambito professionale tendono a tenere un comportamento basato sulle relazioni, mentre gli uomini sono più propensi a puntare sull’individualismo e sull’affermazione di sé. Elementi biologici immutabili e costruzioni sociali vanno a braccetto. Pertanto, se riteniamo che una donna sia più libera di fare le sue scelte se è indipendente economicamente, è giusto attuare politiche che la aiutino a raggiungere quell’indipendenza.

Ma se una donna con un forte istinto materno decide di prendersi cura direttamente dei figli a tempo pieno o part-time, non diciamo che è dovuto alla cultura patriarcale, che in occidente non ha più alcun fondamento legislativo e sociale. La differenza tra il passato e il presente è nella libertà di scegliere.

Una libertà che viene però minata quando, volendo reinserirsi nel mondo del lavoro dopo il parto, mancano i servizi per l’infanzia o per gli anziani non autosufficienti, o sono troppo costosi. Non è un caso se un balzo in avanti nell’occupazione femminile lo abbiamo fatto negli anni ‘70 quando sono nati gli asili nido; o se il tasso di disoccupazione più elevato delle madri lo abbiamo nel Mezzogiorno, dove i posti disponibili nei nidi pubblici e privati non raggiungono il 15% del bacino di utenza.

In realtà, dal mio punto di vista, il problema non è il patriarcato, né la discriminazione, che oggi è residuale. Certo, da combattere ove si verifica, ma non si può ritenere sistemica senza mentire, altrimenti avremmo un mare di vertenze sindacali e di condanne, e non è così. Il problema è nell’insufficienza di chi, non riconoscendo quei fattori biologici che la cultura non può modellare, non mette in atto le politiche di sostegno adeguate.

Se si rifiutano le ragioni biologiche e si ritiene che le donne non debbano stare a casa a prendersi cura dei figli perché ciò equivarrebbe a una “segregazione” forzata, o derivata esclusivamente da uno stereotipo antico, va da sé che non vengono messe in atto le politiche di sostegno necessarie per permettere una determinata scelta. Si spinge invece l’acceleratore verso la direzione di un’ideologia negli ultimi tempi egemonica, che ha l’interesse a mantenere le donne nello stato di inconsapevoli e impotenti vittime dell’uomo oppressore.

Invece, per avere una società più giusta e libera, occorre riconoscere la vera essenza dell’umano, che è un misto di natura e cultura, di maschile e femminile, di differenze complementari. Quindi, va bene ridurre il GPG per far si che le donne si innamorino delle più redditizie discipline STEM, attraverso un incentivo statale milionario alle Università per abbattere le tasse rosa, ma a condizione che si faccia altrettanto per incentivare gli uomini a intraprendere percorsi che li portino verso la bellezza dell’istruzione primaria, dove il Gap azzurro è imbarazzante: secondo i dati del Miur 2017/18, nella scuola dell’infanzia i docenti maschi di ruolo e a tempo determinato sono l’ 1,7%,; il 9,1 nella scuola primaria.

E qui non è certo questione di soldi (gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati d’Europa), ma di capitale umano e di un equilibrio di genere che non deve essere sbilanciato se l’obiettivo è il benessere collettivo. A un’azione per agevolare una parte dell’umanità né deve corrispondere una per agevolare l’altra parte. Se vogliamo ridurre il GPG delle madri che desiderano tornare al lavoro dopo la nascita di un figlio, oltre ai servizi per l’infanzia dobbiamo pensare ai padri.

Dall’1 gennaio 2021 in Spagna i genitori hanno eguale diritto a 16 settimane di congedo non trasferibile pagate al 100%, di cui 6 obbligatorie, le successive facoltative da utilizzare a tempo pieno o part time.

In Norvegia i papà hanno quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% (ne beneficia il 90%). Ed ecco che le mamme che lo vogliono possono dedicare serenamente più ore al lavoro. Mentre i padri possono condividere gioie e dolori di crescere i propri figli.

In Italia, invece, dove le donne passano in media 5 ore al giorno ad occuparsi del lavoro di cura contro 2,5 degli uomini (dati World Economic Forum 2021), i papà hanno appena 10 giorni di congedo obbligatorio remunerato al 100% e vengono chiamati “mammo”. E’ chiaro che nel nostro paese c’è ancora molto da fare su più fronti, a partire dal lavorare sull’Human Gap.

Barbara Benedettelli

25 novembre: senza rigore non si sconfigge nessuna violenza

/
11541 views
2 mins read

Oggi 25 novembre 2022, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, faccio un appello. Prima, però, il tema.

In tutto il mondo, mentre gli uomini vengono uccisi per lo più da sconosciuti nell’ambito della criminalità comune o organizzata, le donne sono assassinate prevalentemente nelle relazioni intime.

Per studiare questo fenomeno è stato coniato il neologismo femminicidio.​ ​Un termine che ha ragione di esistere in quanto​ ​categoria criminologica e sociologica quando c’è violenza fisica, sessuale, psicologica sistematica, ma anche politica, economica e istituzionale.

L’antropologa messicana Marcela Lagarde lo ha utilizzato nel 2004 per attirare attenzione mediatica sulle centinaia di brutali violenze verso le donne di Ciudad Juárez, nella regione del Chihuahua, al confine tra Messico e Stati Uniti.

Qui, dal 1993, studentesse e operaie tra i 13 e i 22 anni vengono stuprate, torturate e uccise nel silenzio delle istituzioni. Silenzio che, nel 2009, è costato al Messico una condanna della Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo con la sentenza di “Campo Algodonero”, dove si cita per la prima volta il termine femminicidio, quale omicidio di una donna basato sul genere.​

E’ opinione della studiosa messicana che la cultura, attraverso una proiezione permanente di spiegazioni che legittimerebbero la violenza sulle​ ​donne, rafforzerebbe la concezione per cui è naturale, dunque inevitabile. Tutto questo accade ancora oggi in alcuni paesi del mondo. Ed è un dovere morale denunciarlo e combatterlo.

Possiamo dire sia così in Italia? Nel nostro paese non c’è alcuna legittimazione né istituzionale, né sociale. C’è invece una forte condanna politica e mediatica. Che però non si limita quegli uomini, rari, che vivono le donne come oggetti da sfruttare e buttare via, ma a tutto il genere maschile. Non solo.

L’appello.

Nel nostro paese si inserisce nella triste conta dei femminicidi ogni uccisione violenta di donna, indipendentemente dal rapporto vittima/carnefice e dal movente. Quella di Concetta Di Pasquale, uccisa a bastonate dal marito può essere considerata un femminicidio: “Mi ha picchiata per cinquant’anni”, ha detto ai carabinieri prima di morire.

Non lo sono, per esempio, le morti di Jennifer Francesca Krasniqi, 6 anni, soffocata lo scorso gennaio dalla mamma che poi ha dato fuoco alla casa per nascondere il delitto; o quella di Giovanna Gamba, uccisa dal figlio affetto da problemi psichiatrici e con un passato di tossicodipendenza e alcolismo.

Eppure troviamo i loro nomi nella tragica lista di un noto e autorevole blog. Una mistificazione, dannosa al fine di individuare le corrette politiche si prevenzione.

Attenzione, non intendo svalutare il termine e ciò che rappresenta! Ma credo che si debba ristabilirne i confini. Occorre rigore. Se il numero delle donne uccise all’interno delle relazioni intime è stabile negli anni, significa che stiamo sbagliando qualcosa.

Senza una revisione dell’approccio al fenomeno, che tenga conto dei mutamenti sociali sempre più rapidi e repentini, delle altre cause e delle diverse responsabilità, la violenza, con la sua quantità infinita di sfumature, si espande come un virus letale. E non risparmia nessuno.

Ecco perché occorre agire con “la bilancia dell’orafo”: cioè con scrupolosa e rigorosa esattezza. E con un salto etico che impone di superare il confine dell’ideologia e degli interessi particolari.

Come sostiene il filosofo Edgar Morin ne I sette saperi necessari all’educazione del futuro, “se può esserci un progresso di base nel XXI secolo, sarà quello per cui gli uomini e le donne non saranno più vittime incoscienti non solo delle loro idee, ma anche delle menzogne nei confronti di sé”.

Barbara Benedettelli

Vittime della strada, militanti della memoria

12125 views
2 mins read

Vittime della strada, militanti della memoria dei loro cari perché non accada ancora.

Nella giornata mondiale in memoria delle Vittime della strada si prenda coscienza che delle loro tragedie non si può smettere di parlare. Non si smetta di dare voce ai familiari delle migliaia di vite interrotte sull’asfalto.

Nel 2021 sono state 2875 (3378 nel 2017) le persone che hanno lasciato genitori, fratelli, sorelle, costretti a vivere l’ergastolo del dolore, Vittime anche loro della superficialità umana.

E lo scrivo con la V maiuscola, per sottolineare il valore “unico” di una condizione invalidante causata dalla generalizzata mancanza di consapevolezza che un mezzo di trasporto è un’arma bianca.

Che una distrazione, o la mancata osservazione di una regola stradale che c’è per salvare le nostre vite, ammazza più della cattiveria e della follia. Più di quel sottile e velenoso fastidio che molti ormai provano verso la vicinanza dell’altro e che si traduce, quando non uccide, in mancanza di rispetto per chiunque e per qualsiasi cosa.

Come per le regole di quella strada che in un decennio, in Italia, ha visto la morte improvvisa di circa 80.000 persone. Un numero che non ci mostra volti, vite, storie, ma un’idea netta, fredda, lucida, di una realtà catastrofica che ognuno di noi ha il dovere di fermare.

Una tragedia collettiva, di grande impatto sociale, eppure tristemente – e irresponsabilmente – sottovalutata. Non c’è morte più socialmente accettata di questa dove la colpa ricade sul caso, sul destino, sulla fatalità, su qualche cosa che agisce fuori di noi, senza di noi, contro di noi. E in parte è vero.

Ma in gran parte no. Non si può prevenire lo scontro causato da una persona alla quale viene un infarto mentre è alla guida, questo sì un tragico incidente. Ma se si ammazza qualcuno, o lo si rende invalido perché si è passati con il semaforo rosso, non si sono rispetti i limiti di velocità, si sono fatti sorpassi azzardati o si stava guardando un messaggio al cellulare, non si è provocato un incidente.

La colpa non è del caso, è dell’individuo, che si è assunto il rischio concreto di conseguenze irrimediabili. Che ha violato il diritto alla vita o all’integrità psico-fisica di chi, e qui sì il caso gioca invece un ruolo importante, ha incrociato la sua strada.

Martin Luther King diceva che la mia libertà finisce dove comincia la tua. Un concetto che è alla base di una società che può dirsi civile e che oggi sembra attraversare una fase di regressione e imbarbarimento.

Oggi la libertà di trasgredire viene osannata in ogni campo, verso le regole, anche quelle favor vitae quali sono quelle della strada, c’è un’indifferenza largamente condivisa e tollerata, che è anche indifferenza verso la vita dell’altro nel quale non ci riconosciamo mai.

Contro questa indifferenza occorre rendere note le condanne perché abbiano valore deterrente oltre che retributivo. Ma ancora prima deve essere reso visibile il dolore scarnificante delle Vittime, testimoni loro malgrado di quelle conseguenze che potrebbero colpire ogni utente della strada in qualsiasi istante. Nessuno escluso.

E allora i genitori di un ragazzo o una ragazza strappati prematuramente alla vita dall’imbecillità, l’incoscienza, la sfrontatezza e l’arroganza altrui, possono avere un ruolo salvifico. E’ necessario si facciano militanti della memoria dei loro cari e dell’orrore che li ha spezzati.

Se riescono ad accettare questo ruolo, possono mostrare senza filtri l’effetto nefasto di quell’indifferenza e di quella libertà vigliacca che legata a un crescente senso di onnipotenza non porta solo a distrugge le vite altrui, ma anche la propria. E possono salvare altre vite, dando continuità, e una ragione, a quella perduta dei loro figli.

Ma per poterlo fare le Vittime non devono essere abbandonate al loro destino dalla società, né dalle Istituzioni, che devono prenderle in carico per un reinserimento sociale che non può esistere solo per i rei e le loro famiglie.

Se davvero vogliamo impedire che queste tragedie non si ripetano più, nessuno può voltarsi dall’altra parte. Nessuno può pensare che le cose brutte accadano solo agli altri e allora chissenefrega. La vita, ogni vita, va rispettata e tutelata in sé.

E non va mai dimenticato che, da un’altra prospettiva, gli altri siamo noi.

Barbara Benedettelli

Giornata internazionale dell’uomo

10633 views
1 min read

La Giornata Internazionale dell’Uomo è stata inaugurata nel 1999 a Trinidad e Tobago, in Italia si celebra a partire dal 2009 grazie all’avvocato Giorgio Ceccarelli, presidente dell’Associazione Figli Negati, che si è fatta anche promotrice della Marcia dei Papà o Daddy’s pride: una manifestazione che si svolge ogni anno il 19 marzo Roma (arrivata alla 31° edizione), e che vede riuniti padri separati italiani e stranieri “per difendere il diritto inviolabile di ogni figlio di amare due genitori e quattro nonni”.

Un movimento che non è “contro le donne o le mamme, ma in favore dei figli” e che ha lo scopo di accendere i riflettori sui ragazzi, che “hanno il diritto alla bigenitorialità, ad amare il padre e la madre, a poter vivere anche dell’affetto di tutti i nonni”.

L’ associazione ha anche istituito la Casa dei Papà separati, per garantire un luogo d’incontro con i figli a quei padri che, a seguito del divorzio, hanno perso la casa.

La Giornata internazionale dell’uomo, che ha anche il sostegno dell’ONU e dell’UNESCO, oggi si celebra in 50 paesi ed è nata con lo scopo di celebrare il contributo maschile nella cura dei figli, nel sostegno alla famiglia e alla comunità.

Ma anche per portare equilibrio tra i sessi, migliorare le relazioni di genere, puntare l’attenzione verso la salute dell’uomo e del ragazzo ed evidenziare le discriminazioni contro il genere maschile, presenti in particolare durante le separazioni e i divorzi.

Ma anche quando gli uomini sono vittime di una violenza femminile che non è solo psicologica o economica, ma anche fisica, come dimostra il mio ultimo libro “50 Sfumature di violenza. Femminicidio e maschicidio in Italia” (Cairo Editore), attraverso dati, fatti testimonianze. 

Una violenza volte feroce, che spesso ha gli stessi moventi e le stesse modalità di quella maschile e che li vede abbandonati dalla società civile e dalle istituzioni; impossibilitati a chiedere aiuto per paura di non essere creduti, di essere ritenuti colpevoli a prescindere o per vergogna a causa di uno stereotipo di virilità maschile duro da abbattere.

#50SDV

Mai più Vittime su strada – Cortometraggio di sensibilizzazione

12577 views
4 mins read

 


Il cortometraggio “Mai più Vittime su strada”, realizzato dall’Amministrazione Comunale di Parabiago e promosso dagli Assessorati alla Sicurezza e alla Cultura, è stato pensato per arrivare a tutti nella Giornata mondiale per il ricordo delle Vittime della strada, nonostante le misure Covid. Il cortometraggio è dedicato ad Andrea de Nando, Bianca Ballabio, Pietro Calogero e tutte le Vittime della strada.

Il messaggio di fondo è questo: 

Non sono “incidenti” quando (oltre il 90% dei sinistri) si sceglie di non osservare una regola del Codice della Strada o non si è attenti alla guida di un qualsiasi mezzo di trasporto. Qui non c’entra la casualità, si tratta di scelte. “La strada non è un palcoscenico, il sedile di un auto non è una poltrona” viene detto nel cortometraggio nel suo passaggio dalla fiction alla realtà. Un mezzo di trasporto è una potenziale arma che può cambiare, per sempre, più vite: quella di chi resta gravemente ferito e ne esce con un handicap, quella di chi muore e dei propri cari, quella di chi lo scontro lo provoca.

Dalla fiction alla realtà: nel finale il Sindaco di Parabiago Raffaele Cucchi, l’Assessore alla Sicurezza e alla Cultura Barbara Benedettelli e il Comandante della Polizia Locale Maurizio Morelli danno il loro messaggio, invitando a seguire le regole del Codice Stradale e ricordano che non rispettarle è una forma di violenza. Uniti a loro alcuni familiari di Bianca e Pietro, i loro amici, la mamma di Andrea e parte della Giunta e del Consiglio Comunale, riuniti al di là dei ruoli e delle idee politiche, per la Sicurezza Stradale e la tutela della vita.

La scena finale si svolge nella Piazza del Comune.

Ognuno ha davanti a sé un telo bianco macchiato di rosso steso sull’asfalto, simbolo delle morti su strada. Mentre il drone sale riprendendo la scena dall’alto, quel telo viene raccolto e stretto in pugno. Lo sguardo al cielo, per ricordare le persone scomparse. Sotto i teli resta una x, un segno di cancellazione, perché non vi siano “mai più Vittime su strada”. Due teli restano lì, stesi a terra, l’obiettivo dell’Amministrazione comunale non è utopico. Una minima percentuale di sinistri è purtroppo inevitabile, in quanto dovuta al caso. L’obiettivo è invece quello di eliminare gli scontri dovuti all’imprudenza, all’inciviltà e alla mancanza di rispetto delle regole e della vita.

La sceneggiatura del cortometraggio, scritta dall’Assessore Barbara Benedettelli, che da anni è accanto ai familiari delle Vittime della strada ed è anche Vicepresidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, volutamente viaggia tra finzione e realtà. Da una parte il Comando di Polizia Locale che dà il senso di realtà, dall’altra il teatro, che all’inizio è mera scena, ma alla fine diventa proprio il luogo in cui la realtà si rivela in maniera netta. 

Si scopre che gli attori non sono attori, ma persone coinvolte per davvero in modo diverso nelle quotidiane stragi della strada. Protagonisti del cortometraggio sono gli amici di Bianca Ballabio e Pietro Calogero, entrambi 20 anni, scomparsi sul Sempione il 2 agosto scorso; Elisabetta Cipollone, mamma di Andrea De Nando, scomparso a 15 anni il 29 gennaio 2011; il Sindaco di Parabiago Raffaele Cucchi; il Comandante della Polizia Municipale Maurizio Morelli insieme a Ufficiali e agenti del Comando di Parabiago. Nel finale, di forte impatto, sono presenti anche altri familiari di Bianca e Pietro, gli Assessori Almici, Benedettelli e Lonati; il Presidente del Consiglio Comunale Adriana Nebuloni e i Consiglieri Croce Elisabetta, Mezzena Roberto, Raimondi Carlo, Rancilio Giuliano, Scocozza Luca, Zerbini Stefania.


TRAMA CORTOMETRAGGIO PER LA SICUREZZA STRADALE – Mai più Vittime su strada

Tre ragazzi stanno recitando in teatro una scena per uno spot sulla sicurezza stradale, intanto al Comando di Polizia Locale si svolge la quotidianità, presto interrotta da alcuni sinistri mortali.

I ragazzi sono sul palco, che rappresenta la strada. Sono seduti sulle sedie come se si trovassero in due auto diverse, in luoghi diversi. Percorrono la strada con imprudenza e senza rispettare le regole del CdS. Una ragazza, fiera della sua nuova auto e sicura di sé, si distrae con il cellulare, va troppo veloce e passa col rosso perché distratta. Le va bene. Un po’ di spavento, ma non è accaduto niente. Continua come se nulla fosse accaduto. Sempre distratta, sempre meno ligia alle regole, sempre con il cellulare in mano. Sino a quando – questa volta perché lo decide – passa ancora con il rosso e investe delle persone.

In Comando arriva la chiamata di una donna che ha assistito al sinistro. E’ sotto shock. Viene inviata una pattuglia che si trova già all’esterno, ma vista la gravità ne parte un’altra dal Comando.

Intanto (sempre in teatro) su un’altra auto ci sono due ragazzi. Decidono di non mettere la cintura, convinti che a loro non possa mai accadere nulla. Il guidatore, che si crede un pilota esperto, se ne frega dei segnali stradali e rischia di investire una madre col figlio. Il passeggero ha paura. Ma proseguono.

Nel frattempo nell’auto della Polizia partita in appoggio a quella già fuori, i due agenti sperano che nel primo sinistro non ci siano Vittime. Nello stesso istante l’auto con i due ragazzi si schianta. Il passeggero è grave, è in coma.

La seconda pattuglia riceve una chiamata dalla centrale che avvisa di un altro grave scontro. Un disastro. Come ogni giorno in Italia: 9 morti al giorno, oltre 3000 feriti in un anno. E’ questo il tragico bollettino che riceve il Comandante, che comunica al Sindaco l’avvenuta strage.

Il Sindaco si reca sul posto. Parla con severità ai ragazzi che hanno provocato i sinistri. In un attimo hanno distrutto più vite, quella di chi hanno ferito o ucciso e anche la loro, che continuerà con il senso di colpa nel cuore.

Nel frattempo la madre di una delle Vittime viene raggiunta dalla Polizia che le comunica la triste notizia. La madre (il simbolo di ogni madre di Vittima) si reca sul luogo dei sinistri e arrabbiata si rivolge ai ragazzi: “La strada non è un palcoscenico, il sedile di un auto non è una sedia! Un mezzo di trasporto può trasformarsi in un arma o in una tomba. Mio figlio Andrea camminava su una strada vera, un proiettile su strada lo ha ucciso. Aveva solo 15 anni”. Non è un’attrice, è Elisabetta Cipollone, mamma di Andrea De Nando. A questo punto anche i ragazzi svelano di non essere attori, ma i veri amici “per sempre” di altre due Vittime della strada: Bianca Ballabio e Pietro Calogero, entrambi 20 anni.

E’ qui che il teatro si incontra con la realtà quotidiana delle migliaia di persone che perdono la vita sulle nostre strade e di chi sopravvive nel dolore della perdita.

Il Finale

Nel finale il Sindaco di Parabiago Raffaele Cucchi, l’Assessore alla Sicurezza e alla Cultura Barbara Benedettelli e il Comandante della Polizia Locale Maurizio Morelli danno il loro messaggio, invitando a seguire le regole del Codice Stradale e ricordano che non rispettarle è una forma di violenza. Uniti a loro alcuni familiari di Bianca e Pietro, i loro amici, Elisabetta e parte della Giunta e del Consiglio Comunale, riuniti al di là dei ruoli e delle idee politiche, per la Sicurezza Stradale e la tutela della vita.

Barbara Benedettelli

Violenza domestica, i numeri oltre il genere

//
15993 views
4 mins read
2

L’indagine di Barbara Benedettelli lo dimostra con i fatti: la violenza nelle relazioni intime, affettive e di prossimità non risparmia nessuno.  Parte dell’indagine, che chiarisce anche il concetto di violenza domestica, è stata pubblicata su Il Giornale, di seguito il contenuto dell’articolo. Chi volesse approfondire, può scaricare l’indagine completa (47 pag.) con fatti, dati, nomi e cognomi di tutte le Vittime maschili e femminili.

Centoventi donne. Centoventi uomini. Sono le vittime di omicidi in famiglia, in coppia, tra amici, vicini di casa, colleghi di lavoro. Tante, troppe. Donne e uomini uccisi in egual misura all’interno delle Relazioni interpersonali significative (Ris).  In relazioni dove dovrebbero esserci amore, affetto, protezione e solidarietà, si muore di morte violenta più che in ambito criminale. Secondo gli ultimi dati del Viminale nell’Italia del 2017 sono state uccise volontariamente 355 persone.

Barbara Benedettelli ha fatto una ricerca per individuare chi sono queste persone, chi le ha uccise e perché. Il risultato è che ben 236 su 355 sono vittime nelle Ris (relazioni interpersonali significative): le donne sono 120, gli uomini 116 più 4 italiano ammazzati all’estero dalle loro partner che non avevano accettato la fine della relazione, o per soldi. Sono i drammatici dati che emergono dall’indagine ‘Violenza domestica e di prossimità: i numeri oltre il genere nel 2017‘, realizzata attraverso la ricerca dei fatti sulle testate web locali e nazionali.

In occasione della stesura del pamphlet ‘Il maschicidio silenzioso (Collana Fuori dal Coro, Il Giornale), e di ‘50 Sfumature di violenza‘ (Cairo), mi sono posta semplici domande:  Perché, nonostante tutto quello che si fa per contrastare la violenza di genere, le donne muoiono in media nello stesso numero? Perché se alla base del fenomeno c’è una relazione, lo si guarda da un solo lato e con uno schema fisso e semplicistico che non tiene conto della complessità e della natura di ciò che si osserva?

È nata così l’indagine di cui pubblichiamo parte dello sconcertante risultato. La raccolta dei dati, poi divisi con criteri in grado di dare a ogni omicidio la corretta collocazione, si è avvalsa dello stesso gioco di prestigio che i teorici del femminicidio fanno nel rilevare le vittime femminili:  non tener conto del fondamentale rapporto vittima/carnefice e del movente, fondamentali, invece, per determinare le cause e intraprendere le giuste azioni preventive.

Se facciamo lo stesso esercizio mistificatorio e la stessa deviazione culturale, potremmo dire che nel 2017 – escludendo i delitti in ambito criminale – i “maschicidi” sono stati più dei “femminicidi”: 133 contro 128. Dati che emergono dai fatti e i fatti, per dirla con Hannah Arendt, sono ostinati. Ma si possono davvero chiamare maschicidi e femminicidi ?

Il numero emerge dalla somma tra gli omicidi avvenuti nelle RIS e quelli il cui autore è uno sconosciuto che ha ucciso persone innocenti: è la stessa somma fatta da chi sostiene a spada tratta il femminicidio, e che, per esempio, conta anche le donne massacrate in casa o in strada da chi voleva rapinarle. Che però non sono state uccise in quanto donne, semmai in quanto vulnerabili. Dunque la loro uccisione non è femminicidio.

In questo ambito, tra l’altro, muoiono soprattutto anziani e ragazzi. Maschi, uccisi in modo sproporzionato: 17, contro 8 donne, nel 2017. Sproporzione che rimane anche negli omicidi di prossimità, quelli tra vicini di casa, conoscenti, amici, colleghi: le vittime maschili qui sono 39, 14 quelle femminili. La triste parità si raggiunge dove c’è un legame di sangue: 40 e 40. Però solo l’ingiusta morte delle donne suscita scandalo, orrore, impegno civile e politico.

Per gli uomini assassinati all’interno delle stesse relazioni e per gli stessi motivi, niente piethas phatos, niente liste tragiche con nomi e cognomi. Li abbiamo contati noi, per farli contare.  Lo chiede la Convenzione di Istanbul, che riconosce anche le vittime maschili della violenza domestica. Ottanta persone massacrate in famiglia: tra i carnefici anche 15 donne, che hanno ucciso più femmine (8) che maschi (7). Di queste, 8 sono madri (due suicidate), contro 3 padri (tutti suicidati); questi undici assassini hanno ucciso 16 minori: 8 maschi e 8 femmine, 3 delle quali, più un bambino, morti per mano di un solo papà.

La moglie che maltrattava il suo compagno e i quattro figli era in cura, lui doveva occuparsi di loro e aveva smesso di lavorare, aveva problemi economici ed è entrato in una devastante depressione. Dov’erano le istituzioni? Proprio qui c’è un’inquietante parità di genere per le vittime e un’inquietante disparità: le madri uccidono di più, e più dei padri sanno sopravvivere al senso di colpa e all’orrore che hanno commesso.

Anche in ambito cosiddetto passionale le donne, quando ammazzano o sono lasciate, difficilmente si tolgono la vita. Gli omicidi-suicidi in ambito familiare e di coppia sono 30: 28 uomini e 2 donne; i suicidi noti, dove la causa è legata alla fine di una relazione, sono 39: 32 uomini, almeno 8 dei quali disperati per il distacco forzato dai figli, e 7 donne, tra cui due bambine di 12 e 14 anni che soffrivano la separazione dei genitori.

Ancora in ambito passionale, su 66 omicidi con vittime femminili quelli che tecnicamente si potrebbero definire femicidi sono 42  (esclusi 4 casi non risolti), di cui 14 commessi da stranieri provenienti soprattutto dai Paesi dell’Est e dal Nordafrica. Gli altri 20, in cui il movente non ha a che fare col genere, sono invece coniunxcidi (da coniunx= coniuge), mio neologismo adottato nell’indagine che vale sia per gli uomini che per le donne a differenza di uxoricidio (da uxor=moglie), il termine giuridico. Il termine femminicidio non lo è.

Gli uomini che hanno perso la vita per mano di una donna che avrebbe dovuto amarli, nel 2017 sono 19. Le assassine hanno agito tutte per difesa o perché maltrattate come retorica femminista comanda? No. Lo hanno sostenuto in 6, così come hanno fatto 5 uomini, in linea con i risultati di una meta-analisi che prende in considerazione le indagini fatte in diversi paesi: la media di questo movente varia in base alla nazionalità dal 5% al 35% quando a colpire sono le donne e dallo 0 al 20% quando sono gli uomini. In Italia, secondo l’indagine in oggetto e un’altra indagine relativa al 2016 fatta per “50 sfumature di violenza”, ci si aggira intorno al 5% quando a colpire sono le donne.

In ambito omosessuale le vittime sono 2, mentre sono 20 (tra cui 2 minorenni) gli uomini massacrati dai rivali o dagli ex delle loro compagne: omicidi che hanno a che fare con il senso di possesso e l’onore, dunque anche, ma non solo, con la cultura patriarcale. Allora se questo è il movente del femminicidio, possiamo definirli maschicidi?  Anche qui gli autori stranieri sono tanti (12).

Insomma, siamo di fronte a un’ enorme costellazione d’orrore e di disperazione, che deve essere colta nel suo tremendo e allarmante insieme. In totale i morti nelle Ris sono 309 se contiamo anche i suicidi: 129 femmine e 180 maschi.

Non riconoscere la psicopatologia, l’isolamento di coppie e persone sole di fronte alle difficoltà e ai drammi della vita, valutare solo le ragioni antropologiche e culturali, concentrarsi solo sulle vittime senza mai guardare, con rispetto, se hanno qualche responsabilità, tutto questo non permette di attuare azioni capaci di impedire scelte folli, che non vanno mai giustificate, ma devono essere studiate e comprese per quello che sono.  Senza mistificazioni inique, né teoremi ideologici politicamente e scientificamente scorretti.

Scarica:  INDAGINE COMPLETA OMICIDI NELLE RIS, ANNO 2017. I DATI OLTRE IL GENERE 

Tweet to @bbenedettelli

Femminicidio, i dati distorti

20211 views
5 mins read

Femminicidio, i dati distorti da una narrazione ideologica della realtà non servono a prevenire. 

Cominciamo con il dire che cosa non è femminicidio, perché negli ultimi tempi gli argini del significato (mai adattato alla realtà italiana) sono stati allargati a dismisura senza un criterio di logicità.

Questa dilatazione ha creato un disorientamento collettivo e un sentimento d’ingiustizia verso altre categorie di Vittime. 

Nel discorso pubblico e politico le uccisioni di donne da parte dei loro figli o delle figlie, dei vicini di casa, della criminalità comune, vengono inserite nella categoria femminicidio (o femicidio).

Un errore volte dovuto a ignoranza o superficialità, altre volte a un utilizzo strumentale e distorto dei fatti, utile a dare dimensioni di grave allarme sociale e di urgenza.

Non sono femicidi quelli che, per esempio, hanno visto nel 2016 la morte tremenda di Maria Rita Tomasoni, 52 anni, uccisa il 9 novembre a Novara dal fratello per ragioni economiche; di Kamaljit Kaur, 63 anni, uccisa da un vicino di casa il 1° giugno a San Felice (Mo), per futili motivi; di Nelly Pagnussat, ammazzata a martellate e fatta a pezzi con un motosega da un vicino con problemi psichici; della gioielliera 75enne in pensione Maria Melziade, uccisa a Canosa di Puglia il 17 novembre, nel corso di una rapina in casa.

Non lo sono quelli di Natalina Carnelli, 82 anni, avvelenata con un cocktail di farmaci dalla figlia (femmina) 61enne; di Danielle Claudine Chatelain, uccisa a 72 anni dalla fidanzata pregiudicata (femmina) della figlia scomparsa. Come non lo è quello di Marianna Luberto, di soli 7 mesi, uccisa dalla madre.

Eppure, nella triste conta dei numeri di donne assassinate per femminicidio, spesso sui media, nei siti delle Associazioni, durante le manifestazioni o nei dibattiti politici – e qualche volta in atti parlamentari – vengono inserite anche queste uccisioni.

Ecco che i numeri salgono: “Violenza sulle donne: la strage continua. Nel 2016 ne sono state uccise 120”; “Femminicidi, 116 donne uccise ogni anno in Italia: i più violenti partner ed ex”.

Secondo ANSA, che come fonte ha utilizzato le Forze dell’ordine, le donne uccise in ambito famigliare nel 2016 sarebbero 108, per motivi riconducibili in maggioranza a tensioni famigliari, al desiderio di separarsi, all’affidamento dei figli.

Qui almeno non si fa menzione del termine femminicidio che, come abbiamo visto, si riferisce a un fenomeno ben preciso. Bensì si parla, giustamente, di “ambito famigliare”.

Se non distinguiamo e riteniamo allarmante il numero complessivo delle donne uccise, da chiunque e per qualunque motivo, dovremmo ritenere ancora più allarmante l’uccisione dei maschi, dando ragione a chi afferma correttamente che sono molti di più: secondo i dati del ministero dell’Interno nel 2015 sono stati uccisi 328 uomini e 141 donne.

Tuttavia non è possibile conoscere il numero esatto di quelli che possiamo definire femicidi perché non c’è una fonte unica, né ci sono ancora paletti universali, dunque la raccolta dei dati è inesatta e a volte faziosa. 

Ognuno dà numeri diversi. 

Secondo Emanuela Valente dell’osservatorio In Quanto Donna, che raccoglie le notizie di cronaca, nel 2016 i femicidi sono stati 72.  Novantadue secondo l’autorevole blog del Corriere della Sera, La 27esima ora, che però inserisce nella categoria anche 15 donne assassinate dai figli, dalle figlie, da parenti quali zii o nipoti. In un caso dalla fidanzata (femmina) della figlia scomparsa e in un altro ci troviamo di fronte a un infanticidio da parte di madre. Il noto blog omette dalla categoria le prostitute, che invece secondo la definizione di Diana Russell vi rientrano. Lo stesso calcolo che non tiene conto del fondamentale rapporto tra vittima e carnefice e delle cause lo fa l’accreditata associazione “Casa delle Donne per non subire violenza”, che attesta, per il 2016, 117 femicidi. Questa volta però vengono contate anche le uccisioni di prostitute da parte del racket.

Troviamo anche qui le donne ammazzate dai figli, dai parenti, dai vicini di casa, da autori sconosciuti e in un caso da una donna. Che, se ci atteniamo al significato del neologismo, non sono femminicidi. Ma anche quando a uccidere sono i partner, le motivazioni sono sempre da ascrivere a quelle che identificano il fenomeno? Cioè, si tratta sempre di misoginia, sessismo, senso di possesso di derivazione patriarcale? No.

I moventi a volte hanno a che fare con la malattia psichiatrica, altre con questioni economiche o di eredità, oppure con l’abuso di alcol e droghe.

Tra le fonti autorevoli presenti in Italia c’è il database della Direzione centrale della Polizia criminale. Nell’ultimo rapporto si nota un calo del totale di tutti gli omicidi volontari del 12% a partire dal 2010: si è passati da 531 a 469 del 2015, di questi ultimi 160 delitti sarebbero avvenuti in ambito famigliare/affettivo: 109 vittime di sesso femminile e 59 di sesso maschile. A parte il fatto che nessuno si occupa delle 59 vittime maschili, non tutte le 109 vittime femminili sono state assassinate dai loro partner e, quando lo sono, la causa non sempre va ascritta alla categoria femminicidio.

È il caso di dirlo: ma che confusione! Attenzione, non intendo svalutare il termine e ciò che rappresenta! Ma credo che si debba ristabilirne i confini.

Se, come afferma il sociologo Émile Durkheim, la società è “un insieme di idee”, e se le idee, per diventare società civile,  devono essere comunicate e condivise dal più elevato numero di cittadini, è essenziale che ci sia un collegamento diretto, univoco e rigoroso tra i nomi delle cose e le cose stesse.

Una parola che ha un elevato valore simbolico e politico, come appunto femminicidio, per avere un significato universalmente condiviso, dunque utile innanzitutto alla prevenzione, deve corrispondere con esattezza e senza approssimazioni ai fatti del mondo che intende descrivere.

Se questa corrispondenza non c’è, il termine diventa arbitrario dunque inutile. Non solo, se non siamo precisi, se non trasmettiamo informazioni corrette all’opinione pubblica, non soltanto rendiamo difficile impedire che accada, ma suscitiamo un forte senso d’ingiustizia: come, la morte di un uomo vale meno di quella di una donna?

Se mettiamo all’interno di questo particolare tipo di violenza anche le uccisioni che nulla hanno che vedere con il genere, perché non riteniamo altrettanto allarmante la morte violenta di un anziano ucciso durante una rapina in casa, di un uomo ammazzato dal figlio o dalla figlia o da un vicino di casa? Come fa l’opinione pubblica a comprendere la necessità di un neologismo controverso e di tutto il lavoro che c’è dietro, delle battaglie civili di chi ogni giorno sta vicino alle vittime, se non siamo precisi?  Occorre rigore.

E anche la volontà di osservare i fenomeni al di sopra delle parti tenendo conto dei mutamenti socioculturali, che oggi più che mai sono repentini e visibili.  È corretto ampliare (o restringere) le cause seguendo l’evoluzione culturale e scientifica, ma va fatto con cognizione di causa, su basi reali e attuali: se al tempo dei miei nonni era accettata la violenza sulle donne e sui bambini in quanto regola patriarcale, oggi quella regola non esiste più, è anzi stata sostituita da una forte condanna morale e anche penale.

Tuttavia le donne continuano a morire ammazzate in numero sproporzionato all’interno delle relazioni affettive.

Dobbiamo pensare di trovarci di fronte a un fenomeno fisiologico dunque ineluttabile? Oppure dobbiamo rimettere periodicamente in discussione i paradigmi attraverso i quali lo spieghiamo?

Era necessario un excursus storico sulla nascita, sul significato e sull’uso politico di una parola tutt’ora controversa. Una parola che, secondo la tesi esposta in questo libro, non rappresenta un fenomeno a sé, ma un ramo, seppure grande, dello stesso albero del male: la violenza domestica.

Tratto da ‘50 sfumature di violenza, femminicidio e maschicidio in Italia di Barbara Benedettelli per Cairo Libri

SCARICA GRATUITAMENTE L’INDAGINE  “I DATI OLTRE IL GENERE” CON NOMI E COGNOMI DI TUTTI I MORTI DEL 2017 NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI SIGNIFICATIVE .

Ergastolo ostativo abolito o attenuato? Anche no!

/
16854 views
2 mins read

L’ex pm Gherardo Colombo nel 2019 su Il Corriere della Sera, ha fatto un appello per abolire l’ergastolo ostativo. Ovvero quell’ergastolo che si applica a mafiosi, sequestratori, trafficanti di droga e terroristi, che possono avere benefici solo se collaborano con la giustizia.

Come Veronesi prima di lui, Colombo sostanzialmente afferma che dopo venti, trent’anni, una persona è cambiata e in virtù dell’articolo 27 della Costituzione secondo cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, deve poter essere valutata da un giudice per ottenere la libertà condizionale.

Ma se realizzi il male nel mondo, per dirla con Ennio Flaiano:

“Sei condannato alla pena di vivere. Domanda di grazia respinta.”

Oggi il tema dell’ergastolo ostativo è al centro dell’attenzione non solo italiana, ma europea. La Corte CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo), afferma che una persona condannata all’ergastolo senza alcuna prospettiva di liberazione, né possibilità di far riesaminare la sua pena perpetua rischia di non potersi mai riscattare”, e chiede agli Stati membri un ridimensionamento della misura in oggetto. In sostanza la pena dovrebbe essere revisionata trascorso un certo periodo di tempo.

In realtà in Italia l’ergastolo ostativo (che ha contribuito a limitare notevolmente in particolare il fenomeno mafioso) prevede che se si collabora utilmente con la giustizia, trascorsi ventisei anni di carcere sono possibili provvedimenti di  liberazione anticipata.

Meglio reinserire in società una persona che si rende collaborativa nella battaglia contro i gravi reati di cui è accusata e la criminalità organizzata, oppure una persona che non ha alcuna intenzione di collaborare e ha magari mantenuto un ruolo di rilievo “nel settore di competenza” tra cui anche l’omicidio? Anzi, più spesso il pluriomicidio! Per rispondere anche all’assunto dell’articolo 27 della Costituzione secondo il quale si deve tendere alla rieducazione, cos’è più educativo tra le due possibilità sopra citate?

Un’ideologia risocializzativa indiscriminata rischia di far cadere il principio di pericolosità sociale: e se non c’è coscienza della pericolosità, non c’è controllo e senza controllo la civiltà muore.

Ora, l’ergastolo ostativo, che ha permesso al nostro paese di arginare fenomeni criminali di grande allarme sociale, rischia di essere abolito per interferenza della Corte europea di Strasburgo, secondo la quale violerebbe l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta “trattamenti inumani e degradanti”.

Ma prima dell’articolo 3 viene l’articolo 2, quello sul Diritto alla vita, dal quale si evince che uno Stato può applicare misure drastiche “per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale”.

Allora, da intellettuali, politici, scienziati ed ex magistrati, ci si aspetta che si parli di responsabilità personale, ben chiara proprio nel primo comma proprio dell’articolo 27 della Costituzione, che nessuno cita mai.

Come si legge nella sentenza della corte costituzionale n°12 del 1966 in riferimento al suddetto articolo,

la vera portata del principio rieducativo deve agire in concorso delle altre misure della pena e non può essere inteso in senso esclusivo e assoluto… E ciò, evidentemente, in considerazione delle altre funzioni della pena che, al di là della prospettiva del miglioramento del reo, sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza, e da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale”.

Ovvero, prevenzione e retribuzione.

Una via d’uscita all’ergastolo ostativo che risponde a tutto questo c’è: collaborare con la giustizia per permetterle di smantellare le organizzazioni criminali che attentano alla sicurezza, alla salute e alla vita dei cittadini.

Ai ladri di esistenze va impedito di continuare a rubare vite. Così come va impedito di credersi vittime sfuggendo all’enormità delle loro colpe.

Invece c’è chi dalla cella nella quale non è finito per caso, afferma che il carcere ostativo “è la morte che ti leva la vita”, che “applicare la pena dell’ergastolo è il più grande male che un uomo possa commettere nei confronti di un altro uomo”.

Ma la morte che ti leva davvero la vita è quella che le persone le mette sotto terra. E l’unico ergastolo senza grazia è quello ingiusto e innaturale del dolore, al quale sono stati condannati i familiari delle troppe Vittime dei reati violenti, anche di mafia! E’ questo il solo ergastolo che si deve non attenuare, ma abolire.

Barbara Benedettelli

Scandali sessuali denunciati a metà

16030 views
1 min read

Bene che gli scandali sessuali siano stati denunciati, benissimo che finalmente il segreto di Pulcinella non sia più tale. Ci sono uomini che usano il loro potere per ottenere favori sessuali che altrimenti resterebbero sogni proibiti. Altri che abusano schifosamente di quel potere con la forza e che devono essere condannati, senza se e senza ma. 

Però un ma in questo ragionamento c’è, anzi due. Da una parte occorre distinguere tra avances senza seguito una volta che la donna rifiuta; molestie sessuali; stupri e abusi di potere. Dall’altra parte bisogna riconoscere (e denunciare) che ci sono avance anche spinte, molestie sessuali e abusi di potere altrettanto subdoli commessi dalle donne. Per sconfiggere un male, non bisogna nasconderne un altro, per di più se correlato al primo. 

Finalmente le donne hanno fatto appello alla dignità e deciso di mettere fine al balletto ingiusto del “se me la dai”. Richiesta più o meno esplicita alla quale molte hanno saputo rinunciare. Perdendo magari un’occasione, oppure no, perché hanno perseverato con determinazione bussando ad altre porte. Alcune invece non sono riuscite a sottrarsi, intrappolate tra la potenza di un sogno e la crudezza della realtà o della violenza.

Ma non cambierà nulla sino a quando gli uomini di potere che di quel potere non abusano, non racconteranno di un altro abuso di potere: quello della seduzione erotica femminile. Fino a quando anche le donne stesse non condanneranno quella minoranza (agguerrita) di loro, che usano coscientemente il proprio corpo come merce di scambio, facendo leva sulle debolezze maschili.

Per tante (troppe) che subiscono i soprusi soffrendone una vita, ce ne sono alcune che il corpo lo usano in un’avida logica di mercato per ottenere vantaggi. Narcise, ambiziose, scaltre maestre di una seduzione erotica che non lascia scampo, innata o appresa, per esempio, dalle migliaia di articoli che si trovano su internet, o nelle riviste femminili: “Come sedurre il tuo capo”, “Come sedurre un uomo sposato” ecc..

E che diventano a loro volta molestatrici sessuali, ma anche usurpatrici di ruoli che dovrebbero essere di chi preferisce raggiungere i propri obiettivi senza compromessi. 

“Non dovremmo vergognarci di essere sexy e di usare le nostre doti per ottenere quello che vogliamo. Non credo ci sia niente di male, lo fanno tutti”, avrebbe detto Cameron Diaz nel 2005 alla rivista Now.

Sedurre non è illegale. Fa parte della natura umana. Di ogni relazione. 

Ma c’è un confine che riguarda il rispetto delle vite degli altri e perfino le pari opportunità, che pari devono esserlo per davvero. Superato il confine, quella seduzione diventa prevaricazione e perpetra quel sistema che è stato in parte (e giustamente) denunciato.

Le donne sono più spesso vittime, ma non lo sono sempre e non riconoscere anche le loro nefandezze, le loro responsabilità, le bugie che raccontano su di sé, impedisce un cambiamento necessario che deve riguardare anche loro.

Barbara Benedettelli

Morti d’indulto

11062 views
7 mins read

L’indulto fa morti. “Ci sia certezza che la pena corrisponda alla condanna e che la condanna corrisponda al reato, perché in questa certezza soltanto c’è la possibilità di rieducare chi ha commesso la peggiore delle azioni. C’è la solidarietà verso chi quell’azione l’ha ricevuta e il rispetto del senso di sicurezza, che rende i cittadini liberi di vivere senza paura. E tra le cause dell’insicurezza c’è anche l’imperfezione di alcune leggi e il fatto che siano spesso contrastanti, per esempio la legge sull’indulto «è in stridente contrasto con la quasi contemporanea legge sui termini prescrizionali»

Quest’ultima infatti ha aggravato notevolmente il trattamento sanzionatorio per i delinquenti recidivi, abituali o professionali, prevedendo incrementi di pena e notevoli aumenti dei tempi prescrizionali. Appare per lo meno incoerente che, a distanza di pochi mesi, si passi da un rigoroso inasprimento sanzionatorio a un generalizzato provvedimento di clemenza che non tiene conto della pericolosità sociale dei singoli condannati.

Era il 29 luglio 2006. Quell’estate ero incinta del mio secondo figlio. Quando ho saputo dell’indulto non potevo credere che stesse succedendo davvero. Nessuno di noi poteva crederlo. Per la prima volta nella storia un governo ha emanato un «provvedimento di scarcerazione anticipata» di ben tre anni: 460 voti favorevoli, 94 contrari, 18 astenuti alla Camera; 245 sì, 56 no e 6 astenuti in Senato. Praticamente un’ovazione collettiva ai “futuri stupri e omicidi”, quelli avvenuti in seguito, per mano degli indultati.

Ho accarezzato la mia pancia di cinque mesi come per proteggerla dall’alito del tradimento di uno Stato che sembrava non avere a cuore la sicurezza, la legalità, la giustizia. E nemmeno se stesso, perché, come afferma Norberto Bobbio, «non può rinunciare al monopolio del potere coattivo senza cessare di essere uno Stato»
Il sentimento collettivo di “abbandono” era reale e largamente condiviso. A chi ci governava non interessava che ci sentissimo tutti meno sicuri e per questo meno liberi?

Tre anni di sconto automatico immediato per pene commesse fino al 2 maggio del 2006. Il provvedimento riguarda molti tipi di reati, e parlo al presente perché i processi, si sa, sono lunghi. Ancora nel 2011 qualcuno doveva essere giudicato in via definitiva per un reato commesso cinque anni prima.

Un beneficio, quello ottenuto con l’indulto, che spesso si traduce in condanne nulle e processi inutili e che secondo il legislatore – e il governo che lo ha promosso e attuato – avrebbe dovuto risolvere un problema che si è ripresentato con dimensioni più grandi già l’anno dopo: il sovraffollamento delle carceri. Tutti fuori. Si fa festa alla faccia del diritto, dell’integrità psicofisica e della vita! E di chi, da quel momento, ha ragione di avere paura.

La Repubblica il 30 luglio 2006, pubblica la lettera di una madre:
Grazie all’indulto, mio figlio tossicodipendente tornerà libero e ricomincerà le sue terribili violenze contro di me. Come mi difenderò? Chi mi difenderà? […] Mio figlio, ormai solo biologico, ha oggi quarantasette anni e delinque da circa trenta: entra ed esce dal carcere. Si è macchiato di gravi reati, comprese rapine a mano armata, si è finto malato terminale per realizzare alcune truffe. La famiglia lo ha seguito fino al 1993, sempre lungo gli itinerari previsti dalla legge: il Sert, i centri di recupero, le comunità. Tutto inutile. Gli è stata data l’ultima chance. Anche questa inutile […]. Da allora le violenze di mio figlio contro di me sono aumentate, sempre finalizzate a ottenere soldi per comprare la droga. In oltre un decennio di terrore ha distrutto più volte la casa, mi ha picchiata, mi ha umiliata. E io sono caduta in uno stato di depressione severa. […] Nel 2003 […] mio figlio è stato arrestato dalla polizia mentre tornava a casa armato di un coltello a serramanico con il quale, probabilmente, aveva intenzione di scagliarsi contro di me. Al momento della cattura ha anche ferito un agente. È stato processato, condannato e – da quanto ho saputo da un funzionario di polizia – durante la detenzione è anche evaso da un ospedale nel quale era stato ricoverato. Da alcuni mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari in una comunità. Ora, l’indulto lo farà tornare libero. Tornerà a fare rapine, a picchiarmi, a torturarmi […] a devastare la casa giorno e notte, pronto anche a uccidermi […]. Signor Mastella […] mi riceva. Vorrei chiederle se mi accoglierà a casa sua; o se mi darà un alloggio protetto; o se mi assegnerà una scorta per difendermi dal mio figlio biologico. In alternativa, se è possibile che io sia arrestata e rinchiusa in un carcere invivibile, il peggior carcere, ma pur sempre più sicuro della mia casa […]. Se tutto questo non sarà possibile, signor Ministro, io ho già deciso: mi toglierò la vita. Vorrò farlo io […] per impedire che lo faccia mio figlio: non voglio vedere i suoi occhi mentre mi uccide.
Leggo il provvedimento e noto qualcosa che mi fa rabbrividire: l’omicidio non è escluso. L’articolo 575 del codice penale non è tra quelli esclusi dall’indulto. Sono a tavola con mio marito, stiamo facendo colazione e leggiamo i giornali. Mi alzo all’improvviso, mi agito, mi arrabbio: «Ma dove siamo? Non è possibile, non si può!» Poi, neanche tanto tempo dopo quel giorno afoso, la cronaca nera comincia a restituirci l’orrore di una scelta politica contestata dagli Stati di mezzo mondo.

Napoli, ottobre 2006

Era libero grazie all’indulto il criminale slavo che ha ucciso a Napoli un giovane commerciante nel tentativo di rubargli l’auto. Il fatto è successo il 5 ottobre scorso a Saviano ma la Vittima, Antonio Pizza, ventotto anni, sposato e padre di un bimbo nato pochi mesi fa, è morto ieri dopo giorni di agonia. […] Il rapinatore, arrestato dai carabinieri, era stato scarcerato solo pochi giorni prima.

Treviso. Agosto 2007

«Sui due corpi, nella camera da letto dove è evidente il passaggio della furia, ci sono i segni della lotta – le ecchimosi, i graffi, i tagli ripetuti e sempre più rabbiosi – e c’è il segno della resa, nel sangue che bagna il pavimento, inzuppa il letto, schizza le pareti. Nella dependance della villa degli industriali D. a Gorgo al Monticano in provincia di Treviso, nella notte tra lunedì e ieri si è consumato un massacro… Le Vittime sono Guido Pellicciardi, sessantotto anni, e sua moglie Lucia Comin, sessantadue. […] Il procuratore capo di Treviso Antonio Fojadelli parla di un crimine «efferato» e dice di usare questo aggettivo perché «colmo di sdegno e sgomento» per quello che ha visto nella stanza […]».17 I rapinatori assassini «hanno lasciato tracce di cocaina e macchie del proprio sangue sul luogo del delitto […]. Un cittadino rumeno di vent’anni e due albanesi di circa trenta, sono stati fermati dai carabinieri di Treviso, guidati dal colonnello Paolo Tardone […]. Il rumeno […] faceva l’operaio presso l’azienda del proprietario della villa […]. I due cittadini albanesi, invece, a quanto risulta a Panorama.it, erano irregolari ed erano usciti dal carcere grazie all’indulto: avevano precedenti di violenza sessuale e rapina.

Bergamo, marzo 2007

Una settimana prima di ammazzare e rapinare una commessa di sessantaquattro anni, L.P., aveva sequestrato la titolare di un negozio di animali, obbligandola a rivelargli il codice del bancomat e liberandola dopo quattro ore. Nessuno lo ha fermato. È uno dei particolari emersi durante l’interrogatorio di V.d’E., trentasette anni, una sfilza infinita di precedenti penali […] «Era fuori per indulto pur avendo alle spalle ben venticinque rapine: questo assassino non merita nessuna pietà» dichiara il senatore della Lega Ettore Pirovano, storico sindaco di Caravaggio, oggi numero due dell’amministrazione comunale. «La cosa che più addolora non solo me ma tutta la cittadinanza è che un pm, all’inizio di febbraio, convalidò l’arresto di questo tipo per furto ai danni di un’anziana, ma un giudice l’ha poi rilasciato. È sempre la solita storia..

Plurirecidivo e pluriliberato. Ma la recidiva non dovrebbe essere punita con sanzioni più severe?

Mi limito a riportare questi casi, una minuscola parte rispetto ai tanti che si sono verificati in questi anni. Per chi rapina, chi violenta, chi uccide, l’indulto dovrebbe essere escluso, ma nella necessità di partire per le vacanze qualche svista c’è stata. E per chi pur avendo fatto del male agli altri riceve da un giorno all’altro ben tre anni di libertà è come sentirsi dire: «Io Stato permetto a te, bomba a mano, di andare tra la gente a patto che tu, nonostante la tua natura esplosiva, non cerchi di realizzare te stessa esplodendo tra la gente. Vai in pace!» E quello realizza se stesso: esplode portandosi dietro tutti quelli che gli capitano vicino!

Perché l’indulto? Prima del provvedimento “d’impunità” i detenuti erano sessantunomila e i posti disponibili quarantaduemila. Qualche cosa si doveva fare. Ma perché trovare una soluzione che mette a rischio i liberi cittadini, che nega ogni principio di legalità, che annulla la forza del diritto? Nel 2010 i detenuti erano circa settantamila. Eppure grazie a quel provvedimento alcuni cittadini sono morti e le Vittime che già c’erano lo sono diventate due volte. Perché questa iniquità?

Il principio cardine della nostra legge penale si basa sul fatto che è meglio ci siano cento colpevoli fuori che un innocente in carcere. Sacrosanto. Ma quando in carcere c’è un colpevole, quell’uomo deve pagare un prezzo fisso alla vita, soprattutto se ha commesso un delitto contro la vita. Inoltre non credo proprio che provvedimenti come l’indulto possano realizzare il principio costituzionale della rieducazione.


Perché a questi uomini viene negata la possibilità di scendere nel pozzo buio dell’anima per conoscere fino in fondo se stessi, le loro colpe gravide, le loro responsabilità letali, le loro meschinerie? Che cosa può fare l’educatore se non può agire sull’essenza, se educa una maschera, un volto di convenienza che si fa bello per poter ottenere un beneficio in termini di libertà?


«Nessun uomo è innocente!», è vero. Nessuno è libero dal male. Ma è libero di non realizzarlo nel mondo.

Gli assassini, gli stupratori, i pedofili, i rapitori, i sadici, gli spacciatori di droghe, non sono innocenti dinnanzi alle loro Vittime. Non lo sono rispetto al loro delitto. A chi giova, una volta scoperti, lasciar- li prematuramente liberi di rubare le vite degli altri?”

Barbara Benbedettelli @bbenedettelli

Tratto da Vittime per Sempre ( Aliberti Editore)

TUTTI I DIRITTI RISERVATI