L’abolizione dell’ergastolo ostativo, come richiesto da più parti, è secondo Benedettelli un errore che lede i diritti delle Vittime e mette a rischio la tenta sociale
Il senso della pena tra rieducazione, colpa, dignità della vita umana e responsabilità personale.
Da anni sono vicina ai familiari delle vittime di omicidio, e con loro lotto contro chi, a spot, vuole abolire l’ergastolo. Contro un sistema che spesso nega giustizia e svilisce il valore della vita umana. Un sistema che, di fronte ai carnefici, appare indulgente, mentre alle vittime e ai loro familiari lascia un dolore senza fine.
Tempo fa il professor Veronesi sosteneva che, dopo dieci anni, anche l’omicida più efferato possa essere liberato senza rischi per la società. A suo dire, il male non esisterebbe geneticamente nell’uomo ma solo come frutto dell’ambiente, e un individuo a distanza di vent’anni sarebbe ormai una persona diversa, cerebralmente rigenerata.
Ma la realtà smentisce questa teoria. Basti pensare ad Angelo Izzo: dopo trent’anni e nonostante la libertà vigilata, ha ucciso altre due donne con modalità identiche a quelle dei fatti del Circeo. La rigenerazione cerebrale non sempre si traduce in rigenerazione morale. Ci sono ricerche che affermano il contrario, come quella sul MAOA della dottoressa Terrie Moffitt, dell’Istituto di psichiatria del King’s College di Londra, che conferma la presenza del gene del male. E ne abbiamo ampia prova ogni giorno.
Ergastolo e rieducazione: un falso conflitto?
Veronesi affermava che la rieducazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione sia incompatibile con il carcere a vita. Ma l’articolo 27 parla di un obiettivo cui “tendere”, non di un diritto automatico alla libertà. E come ben sanno i criminologi, la buona condotta può essere simulata, diventando un mezzo per ottenere benefici, non sempre frutto di un reale cambiamento interiore.
Il mito della rieducazione automatica
Il sistema rieducativo necessita certamente di riforme. Ad esempio, il lavoro in carcere dovrebbe diventare obbligo, perché il lavoro è dignità, contributo sociale, esercizio di responsabilità: diritti e doveri sanciti dall’articolo 4 della Costituzione. Un’ideologia risocializzativa indiscriminata, inoltre, mina il principio di pericolosità sociale. Senza coscienza della pericolosità, non c’è controllo. E senza controllo, resta solo la giungla.
La pericolosità sociale e il libero arbitrio
La pena ha due scopi primari e insostituibili: prevenzione e retribuzione. Essa dissuade dal compiere nuovi delitti e ristabilisce l’equilibrio violato. Come recita la sentenza n. 12/1966 della Corte Costituzionale:
“La rieducazione del condannato, pur nell’importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio… La vera portata del principio rieducativo deve agire in concorso delle altre misure della pena e non può essere inteso in senso esclusivo e assoluto… E ciò, evidentemente, in considerazione delle altre funzioni della pena che, al di là della prospettiva del miglioramento del reo, sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza, e da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale”
La giustizia come equilibrio: il prezzo della vita umana
In una società dominata dalla logica dell’Homo Oeconomicus, ogni cosa ha un prezzo che ne stabilisce il valore. Che prezzo vogliamo dare alla vita umana? Una vita spezzata arbitrariamente può valere dieci anni di pena? La giustizia è tentativo di ristabilire equilibrio. Chi ha tolto la vita ad altri deve pagare un prezzo adeguato. Alcuni reati sono mali in sé, non per il solo fatto d’essere vietati, e per chi li compie non devono esserci scorciatoie. E’ l’atto che va giudicato, la sua gravità. Non sono importanti le cause, il perché. Ciò che conta sono: come, cosa e quello che resta. Mentre qualcuno definisce l’ergastolo “la morte che ti leva la vita”, i veri “sepolti vivi” sono i genitori che piangono figli assassinati, i familiari che sopravvivono a un dolore che strappa l’anima e non conosce grazia.
Quando si giustifica il male, il male cresce
Ogni volta che il male viene derubricato a fatalità ambientale o sociale, esso cresce. Si trasforma in indulgenza verso i colpevoli e in ulteriore ingiustizia per le vittime. Per questo mi aspetto da intellettuali, giuristi e politici che si torni a parlare di autodeterminazione, di scelta, di responsabilità personale — ben chiara nel primo comma dell’articolo 27 della Costituzione, spesso ignorato. Oggi viviamo l’effetto opposto: pene sempre più leggere, giustificazioni sempre più estese, carnefici sempre più presentati come vittime del sistema.
Io credo nel libero arbitrio. Credo che ogni uomo sia chiamato, sempre, a scegliere tra bene e male. Chi sceglie il male, ne paghi il prezzo. Senza sconti. La legge, come diceva Camus, non dovrebbe ammettere circostanze attenuanti. Circostanze che invece si moltiplicano. Ed ecco che la possibilità di evitare la pena si innalza e insieme si innalza la soglia di percezione della colpa. I ladri di esistenze continueranno a rubare le nostre vite certi che prima o poi qualcuno li renderà liberi, come il male. Però, senza la libertà la vita resta. Senza la vita non c’è più niente.
Il diritto alla giustizia non può cedere all’illusione di un buonismo senza responsabilità. Non esiste società giusta se non riconosce fino in fondo la gravità del male scelto e compiuto. E ogni scelta, anche la più estrema, porta con sé un prezzo che deve essere pagato. Perché proteggere la vita innocente è il primo dovere di ogni Stato che voglia ancora chiamarsi civile.
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