L’incapacità di intendere e di volere: una formula che svuota la giustizia
Quando Kabobo ha ucciso tre persone per strada a colpi di spranga, la prima preoccupazione della magistratura è stata quella di accertare se comprendesse “il disvalore dell’atto”. Se non lo comprendeva, niente imputazione, niente colpa. Lo stesso è accaduto con Oleg Fedchenko, che prima di ammazzare Emilou Arvesou disse alla madre: “Vado a uccidere qualcuno”. Aveva già subito un TSO. Nessuno lo ha fermato. Dopo il delitto, una sentenza lo ha dichiarato non imputabile per schizofrenia. Oggi potrebbe essere libero.
Ma la giustizia, quella che si basa sui fatti, può davvero ignorare ciò che è accaduto nel mondo? Davvero può bastare una perizia a cancellare la realtà concreta della morte, del dolore, della distruzione?
Colpevolezza e infermità: la linea sottile e arbitraria
Nel nostro ordinamento non può essere punito chi commette un reato senza coscienza e volontà. Ma chi stabilisce se questa coscienza c’è stata? Le perizie. Le stesse che spesso danno risposte opposte. Le stesse che presuppongono una scissione dell’Io tanto rapida quanto indimostrabile. Se ci vogliono prove solide per condannare un sano, perché basta un sospetto clinico per “assolvere” un folle?
E se l’infermità mentale è imprevedibile e incontrollabile, perché non è considerata aggravante invece che attenuante? Perché la società deve assumersi il rischio del delitto e poi la rinuncia alla giustizia?
La follia è un problema pubblico
Quando l’On. Carlo Ciccioli propose una riforma dell’assistenza psichiatrica che prevedeva la possibilità di trattenere le persone a rischio oltre il TSO standard di una settimana, fu accusato di voler limitare la libertà. Ma a quale prezzo manteniamo certe libertà? A quello di Vittime che non dovevano morire?
In Italia, l’intervento avviene solo dopo. Quando il danno è già stato compiuto. Quando qualcuno è già morto. E anche allora, non sempre si interviene: Kabobo, ritenuto incompatibile con il carcere, rischiava di finire in una struttura non detentiva. Nonostante la “altissima pericolosità sociale”.
Un diritto alla vita senza tutele
L’assassino, anche se incapace, ha diritti: trattamento, reinserimento, supporto. E la Vittima? Spesso ha solo il proprio lutto, e uno Stato che non la riconosce pienamente. Esiste un intero ordinamento penitenziario che prevede assistenza alla famiglia del detenuto. Ma non esiste un “ordinamento per le Vittime”. Nessuna struttura parallela, nessuna simmetria.
La nostra Costituzione prevede il fine educativo della pena. Ma non indica quale debba essere. E non dice da nessuna parte che l’educazione possa sostituirsi alla giustizia.
Diritto penale e malum in se: i fatti contano
L’omicidio è un male in sé. Esiste. Produce un effetto irreversibile nel mondo. In Svezia l’imputabilità non è centrale: l’unico nodo è la misura della pena. Da noi, se sei “folle” puoi tutto. Ma se la legge vuole essere equa, deve partire da ciò che è accaduto e non da chi sei, come ti senti, o da cosa affermano le perizie. Perché le Vittime sono reali, non ipotesi.
Cambiare si può: la legge è opera umana
Negli anni ‘80 si tentò di riformare la non imputabilità. Si voleva restituire dignità anche al malato, responsabilità al reo, giustizia alla Vittima. Poi tutto fu abbandonato. Ma oggi, in una società che invoca sicurezza, giustizia, e verità, è tempo di riaprire il dibattito. Dare un valore alla vita umana. E un prezzo alla sua soppressione.
Un prezzo non negoziabile. Nessuno sconto. Nessun automatismo. Nessun vuoto. Perché la libertà di chi uccide non può venire prima del diritto di vivere di chi viene ucciso.


