Barbarie: la vera disumanità è non riconoscerla

Imputabilità e giustizia: l’aula di tribunale vuota come simbolo di vuoto normativo sulle Vittime

La vera barbarie non è solo nei gesti efferati, ma nella rimozione collettiva della responsabilità, nella giustizia che dimentica la Vittima. In nome di un’umanità esasperata si finisce per giustificare l’ingiustificabile, perdendo ogni riferimento al giusto. Una riflessione sul dis-umano che abita anche noi, e che solo la civiltà e la legge possono contenere.

Barbarie: la vera disumanità è non riconoscerla

Si parla spesso di “barbarie” all’interno degli istituti penitenziari, di condizioni disumane, di reintegrazione e diritti violati. Se ne parla con toni drammatici, spesso enfatici, come se il carcere fosse la sede primaria del dolore umano. Ma si tace, o si tace troppo, su ciò che precede la detenzione: l’atto che ha infranto il limite, che ha generato la necessità – e la legittimità – di privare qualcuno della libertà. Si oscura deliberatamente il fondamento della pena: la responsabilità.

Abbiamo imparato a guardare la realtà da un solo lato, come se il reo fosse l’unico protagonista, il solo meritevole di attenzione, il solo destinatario di compassione. Ci concentriamo sulle sue condizioni di vita, sui suoi diritti, sulla sua umanità, dimenticando – con una rimozione che è diventata sistemica – che quella libertà oggi limitata è stata, in passato, violentata e abusata. E che quell’abuso ha spezzato altre vite, spesso in modo irreparabile.

Forse questo sguardo parziale nasce da un’abitudine culturale: l’abuso di libertà è diventato normalità, e con esso si è smarrito il senso del limite. I diritti, da strumenti di giustizia, si sono trasformati in vessilli ideologici, agiti senza radicamento nella verità. Non ci si chiede più come prevenire la violenza, come estirparne le radici sociali e personali. Non ci si chiede più come rendere la giustizia giusta per tutti – anche per le Vittime. Si preferisce accontentarsi di una narrazione salvifica, rassicurante, che parla di redenzione, rieducazione e reinserimento. Ma rieducare chi non ha mai voluto essere educato, chi ha ucciso o distrutto senza pentimento, è davvero sufficiente?

I governi passano rapidamente, e con loro le leggi. Quello che resta è un’idea di giustizia sfilacciata, mutevole, manipolata da interessi politici o da correnti ideologiche. Ciò che avrebbe dovuto essere un processo di evoluzione civile sta diventando, sotto i nostri occhi, una lenta demolizione dei pilastri della convivenza. E così, mentre ci indigniamo per le condizioni carcerarie – che spesso sono certo da migliorare – dimentichiamo che la vera barbarie non è il carcere in sé, ma ciò che ha condotto lì chi vi si trova.

L’errore di umanizzare ciò che è disumano

Si parla di barbarie quando i media riportano episodi limite all’interno delle carceri, quasi sempre eccezioni. Ma si tace, troppo spesso, su crimini che hanno lasciato corpi straziati, famiglie distrutte, esistenze cancellate. Donne accoltellate e bruciate vive. Bambini massacrati. Uomini finiti sotto le ruote di un’auto lanciata a tutta velocità per una scommessa con la morte. A volte le testimonianze di questi eventi sono così fredde, così distaccate, da spaventare più dell’atto stesso. Eppure, il racconto si interrompe lì. La cronaca fa il suo effetto per poche ore, poi si spegne. Al centro della scena rimane, ancora una volta, l’autore del crimine. Lui, con la sua umanità da tutelare. E il suo “errore”, che errore non è.

Una giustizia sbilanciata che assolve il colpevole

L’orrore, invece, quello compiuto, resta. Non scompare con la condanna. Resta nei cuori e nelle vite delle Vittime, e nella coscienza collettiva di una società che, se vuole dirsi civile, non può dimenticarlo. Ma il problema è più profondo: quando giustifichiamo il colpevole e dimentichiamo la Vittima, perdiamo qualcosa di noi. Perdiamo l’anima, o meglio, il senso stesso della nostra umanità. Perché l’umano autentico sa riconoscere il male, senza bisogno di razionalizzarlo o travestirlo.

Così, nel nostro smarrimento, finiamo per umanizzare all’eccesso proprio ciò che umano non è più: chi ha agito con dis-umanità verso l’altro. Ma forse questa tendenza deriva dal bisogno disperato di assolverci, di non guardare in faccia la verità, di non ammettere che il disumano alberga in ognuno di noi. Sì, in ognuno. Solo la civiltà, con le sue leggi e le sue sanzioni, ha saputo trasformare quel potenziale oscuro in controllo, responsabilità, limite. È la civiltà che ci salva dalla barbarie, non l’indulgenza.

Eppure, mentre discutiamo delle cause dei crimini, dimentichiamo che la verità ultima non è sempre penetrabile. Neppure lo psichiatra più preparato può stabilire con assoluta certezza cosa abbia mosso la mano di un assassino. Eppure ci proviamo. Anzi, spesso andiamo oltre: costruiamo narrazioni capovolte, in cui il colpevole diventa la vera vittima, spinto a uccidere da ciò che ha subito. Una contorsione logica e linguistica che riflette il ribaltamento morale del nostro tempo.

Chi ha davvero bisogno di umanizzazione

Invertiamo i ruoli, ignoriamo le evidenze, travestiamo la verità di menzogna, fino a renderla irriconoscibile. E in questo travestimento perdiamo l’unico appiglio che potrebbe salvarci: la giustizia intesa come fondamento etico della convivenza. Non giustizia vendicativa, ma giustizia salda, netta, fondata sull’azione e sulle sue conseguenze. Una persona è morta perché qualcun altro l’ha uccisa: questo non è interpretabile. È una verità evidente, e dovrebbe costituire il punto fermo su cui ricostruire il senso della pena.

Quanto sarebbe tutto più chiaro se cominciassimo ad accettare che il dis-umano è dentro di noi, ma che possiamo scegliere – ogni giorno – se manifestarlo nel mondo o contenerlo nella mente. Ed è questa scelta che va giudicata. Non ciò che ci ha spinti a fare il male, ma il fatto stesso che lo abbiamo scelto. Perché l’umanità non è solo un dato biologico, ma una conquista. E non c’è conquista senza limite, senza paura delle conseguenze, senza responsabilità.

Abbiamo bisogno di verità, non di abiti retorici che coprano il nulla. Di verità che affermino il valore della vita, la sacralità dell’altro, il diritto della Vittima a non essere cancellata. Ogni nostro passo è un passo verso un nuovo inizio o verso una caduta rovinosa. E questa caduta non coinvolge solo chi la compie, ma tutti noi.

Questo è ciò che dovrebbero comprendere – prima ancora dei cittadini – coloro che hanno il potere di legiferare, giudicare e amministrare. I politici, i magistrati, i garanti dei diritti. Sono loro, oggi più che mai, a necessitare di una vera “umanizzazione”: non di chi ha disumanizzato l’altro, ma di chi ha il compito di proteggere la società dal rischio, sempre in agguato, di tornare a essere lupi per noi stessi.

di Barbara Benedettelli — Sociologa, saggista, giornalista e Vicepresidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime. Autrice di numerosi libri e studi su crimine, giustizia, AI e relazioni umane.

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Barbara Benedettelli

Barbara Benedettelli è sociologa, saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.

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Chi è Barbara Benedettelli
Sociologa, giornalista e saggista. Autrice di inchieste su giustizia, vittime, violenza relazionale e intelligenza artificiale. Editorialista per Il Giornale e autrice di saggi come Dialogo con l’Umanità, Connessioni Pericolose e 50 Sfumature di Violenza.

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