Violenza domestica e violenza di genere non sono sinonimi. La Convenzione di Istanbul lo dice chiaramente: per tutelare tutte le vittime servono parole precise e politiche mirate. In questo articolo analizziamo cosa dice davvero il testo internazionale più citato e frainteso sulla violenza relazionale.
La necessità di distinguere
Nel dibattito pubblico italiano e internazionale, i termini “violenza di genere”, “violenza domestica” e “femminicidio” vengono spesso utilizzati come sinonimi. Questa confusione semantica non è solo un problema linguistico, ma produce conseguenze concrete sul piano normativo, culturale e sociale. La Convenzione di Istanbul e la legge italiana (in particolare la 119/2013) offrono invece una base chiara per distinguere con rigore queste forme di violenza. Ed è proprio da quella chiarezza che possiamo ripartire per costruire una reale tutela delle vittime, tutte le vittime.
Violenza domestica: contesto relazionale, non identitario
Sempre secondo la Convenzione, la violenza domestica è quella che si consuma all’interno del nucleo familiare o tra partner attuali o passati, indipendentemente dal sesso delle persone coinvolte. È una forma di violenza legata non al genere, ma alla relazione. Può riguardare uomini, donne, bambini, anziani. La violenza domestica è per definizione trasversale, perché nasce dalla disfunzionalità dei legami affettivi, non da strutture di dominio culturale.
E proprio in questo la Convenzione di Istanbul si dimostra più equa di quanto spesso venga raccontata. Nel preambolo si riconosce infatti esplicitamente che “anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica”. Il testo utilizza espressioni neutre come “partner”, “coniugi”, “persone”. Eppure nella comunicazione pubblica questa neutralità è spesso disattesa, oscurando una parte delle vittime.
Violenza di genere: definizione e presupposti culturali
La Convenzione di Istanbul definisce la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Rientrano in questa categoria tutti gli atti di violenza (fisica, sessuale, psicologica, economica) commessi contro una donna “in quanto donna” o che la colpiscono in modo sproporzionato. Si tratta di una violenza radicata in un contesto culturale, strutturale, patriarcale, dove il dominio maschile trova ancora spazi di espressione nella vita privata e pubblica. La finalità dichiarata è quella di contrastare relazioni storicamente diseguali di potere tra uomini e donne.
Il femminicidio: categoria utile, ma che chiede rigore
Il femminicidio è un neologismo nato in ambito femminista per indicare l’uccisione di una donna in quanto donna. Ha valore sociologico, culturale e politico, non giuridico. In Italia, il femminicidio è oggi riconosciuto come reato autonomo. Il legislatore ha recentemente introdotto una specifica aggravante per l’omicidio commesso “contro una donna in quanto tale o comunque in un contesto di violenza di genere”, sancendo così un riconoscimento formale e giuridico della sua specificità. Tuttavia, resta fondamentale non confondere questa tipologia con tutte le uccisioni di donne: il femminicidio si distingue per il movente legato al genere e per il contesto relazionale e culturale in cui avviene.
Il problema infatti non è l’esistenza del termine, ma il suo uso esteso e impreciso. Vengono definiti femminicidi anche omicidi di donne compiuti da figli, vicini, rapinatori, persone con disturbi mentali, donne stesse. Ma se tutto è femminicidio, nulla lo è davvero. Come ogni parola ad alto valore simbolico, anche questa ha bisogno di rigore. Per essere utile alla prevenzione deve avere confini chiari e condivisi.
La legge italiana 119/2013: oltre il titolo
Conosciuta dai media come “legge sul femminicidio”, la 119/2013 non introduce affatto tale reato. Inasprisce invece le pene e amplia le misure di tutela per tutti i casi di violenza domestica e relazionale, usando il termine neutro “persona offesa”. Include partner attuali o passati, conviventi, ex conviventi, genitori, figli, anziani. Riconosce anche forme nuove di violenza come quella psicologica, economica, assistita. La norma dunque non discrimina, ma viene comunicata in modo distorto.
Media, comunicazione e responsabilità
La confusione tra violenza domestica, di genere e femminicidio è alimentata anche da una narrazione mediatica approssimativa, che troppo spesso si limita a riportare etichette preconfezionate senza verificare la realtà dei fatti. Questo alimenta la percezione che esistano vittime di serie A e vittime di serie B. Ma ogni vita che viene spezzata, ogni corpo che cade, ogni relazione che si trasforma in tragedia merita ascolto, verità, giustizia.
Conclusione: dire la verità per proteggere tutte le vittime
La Convenzione di Istanbul non è un testo ideologico. Lo è, piuttosto, l’uso parziale che se ne fa. Una lettura onesta e integrale del documento mostra che è possibile proteggere le donne senza escludere gli uomini. Riconoscere il femminicidio come una forma estrema di violenza relazionale è legittimo, ma occorre mantenere la precisione terminologica.
Solo partendo da una distinzione chiara tra violenza domestica e violenza di genere possiamo costruire una cultura della prevenzione che sia davvero inclusiva. Una cultura che non abbia paura della complessità, ma che la abbracci per restituire giustizia a tutte le vittime, senza distinzioni.


