Il femminicidio è un virus sociale e culturale che uccide anche senza colpire fisicamente. Scopri quando possiamo davvero parlarne, e perché è essenziale distinguere, capire e prevenire.
Non ogni donna uccisa è vittima di femminicidio
Il termine femminicidio non è un’etichetta da applicare a ogni donna uccisa. Non lo è nemmeno quando l’omicida è un compagno o un ex. Questa confusione semantica e mediatica indebolisce la comprensione del fenomeno e ostacola la possibilità di prevenirlo. È necessario chiedersi: quando si può davvero parlare di femminicidio?
La risposta non è emotiva, ma precisa: il femminicidio è un tipo specifico di omicidio che si colloca dentro una relazione affettiva o pseudo-affettiva dove la donna viene uccisa perché donna. Perché libera, autonoma, disobbediente a un dominio.
Quando il “ti amo” contiene il seme della distruzione
Alcuni uomini non tollerano l’indipendenza, il rifiuto, l’allontanamento. Non tollerano che una donna possa essere felice senza di loro. In questi casi, la violenza esplode per controllare, per fermare, per possedere. Dopo, diranno di aver agito “per amore”, per gelosia, per passione. Ma l’amore che uccide non è amore. È l’opposto. È dominio travestito, dolore mascherato da sentimento.
Come diceva Troisi: “Quello non è amore. È un calesse.”
Se in nome dell’amore si scatena violenza, prigionia, lividi, morte, allora si tratta di una maschera del male, che trova giustificazioni nel linguaggio, nella cultura, persino nel diritto.
Femminicidio: un virus sociale e culturale
Questa forma di violenza ha oggi un nome. È stata isolata, come si fa con un virus letale. L’analogia con la scienza non è casuale: un virus si riconosce, si distingue, si studia. Così si fa con il femminicidio, per capirne le dinamiche, i segnali, i tempi di incubazione, la portata distruttiva.
Per questo non tutte le donne uccise sono vittime di femminicidio, ma ogni femminicidio è la punta estrema di un lungo processo: psicologico, sociale, culturale. Un processo spesso invisibile, che si sviluppa dentro le mura domestiche, nel silenzio. E che, come un virus, agisce indisturbato finché non è troppo tardi.
La struttura del femminicidio: controllo, privazione, negazione
Il femminicidio non è (solo) un atto fisico. È una negazione strutturale della libertà femminile: dell’autodeterminazione, della libertà sessuale, di movimento, di scelta, di espressione. È un fenomeno che si sviluppa nel tempo e che può esistere anche senza l’omicidio: quando la donna viene spogliata dei propri diritti fondamentali, annullata nella sua identità, impedita nel costruirsi un futuro.
È per questo che il femminicidio, come categoria criminologica e sociologica, va oltre il codice penale: è presente dove mancano leggi adeguate, dove le società accettano, giustificano o normalizzano questi comportamenti. Dove lo Stato resta a guardare.
Una morte annunciata, spesso ignorata
Nella maggior parte dei casi, prima dell’uccisione ci sono anni di vessazioni, umiliazioni, violenze psicologiche, fisiche, economiche. Anni in cui la donna chiede aiuto e non viene ascoltata, in cui la società volta lo sguardo, in cui il sistema giudiziario fatica a leggere i segnali.
Il femminicidio non esplode all’improvviso. È un tumore sociale in metastasi, e come tale va trattato: con strumenti di lettura adeguati, con prevenzione reale, con un cambiamento culturale profondo che rimetta al centro la dignità di ogni persona.
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