L’atto di clemenza del 2006 viene spesso presentato come un successo rieducativo. Ma i dati sono parziali, la recidiva sottostimata, e le vittime numerose. Questo articolo analizza i numeri, smonta la retorica dell’efficacia, e riporta i nomi di chi è morto per mano di beneficiari del provvedimento. Un documento civile per ripensare davvero la giustizia.
Atto di clemenza generale del 2006 (indulto): cosa è accaduto
A quasi vent’anni di distanza, è doveroso chiedersi: quali effetti reali ha prodotto il provvedimento collettivo di clemenza noto come indulto del 2006? Qual è stato l’impatto sulle carceri, sulla recidiva, ma soprattutto sulla sicurezza e sulla vita dei cittadini onesti che si sono ritrovati – inconsapevoli – ad assumere su di sé il costo umano di quella decisione?
Secondo i dati forniti dal Ministro Annamaria Cancellieri nell’ottobre 2013, l’effetto immediato fu l’alleggerimento temporaneo della popolazione detenuta, ma solo pochi anni dopo – precisamente nel 2009 – le presenze nelle carceri raggiunsero un nuovo picco: oltre 69.000 persone recluse, circa 30.000 in più rispetto al momento in cui il provvedimento fu applicato. In media, il numero dei detenuti è aumentato di 7.000 unità l’anno. Dove sarebbe, dunque, l’effetto risolutivo del provvedimento?
Eppure, da più parti si è tentato di dimostrare che la clemenza ha avuto un effetto “rieducativo”, con tanto di percentuali a sostegno della tesi secondo cui i beneficiari dell’indulto avrebbero avuto una recidiva inferiore rispetto a chi non ne ha usufruito. Ma qui entriamo in un territorio pericoloso, dove i numeri – se usati con superficialità o intenzione ideologica – possono diventare strumento di mistificazione.
La comparazione più citata riguarda il 68,45% di recidiva dei detenuti scarcerati nel 1998 entro sette anni, contro il 33,92% dei recidivi indultati tra il 2007 e il 2011. Ma il raffronto è fallace: il primo dato copre un arco di sette anni, il secondo solo quattro. Due anni in meno incidono significativamente, soprattutto se si considerano le recidive tardive. Inoltre, il dato più recente non include gli ex detenuti che, dopo l’indulto, erano in regime di misure alternative. Di questi si parla solo in riferimento a un campione di 7.615 soggetti su 17.387 totali. La rilevazione è inoltre terminata nel 2008, ben tre anni prima del rilevamento sulla recidiva dei detenuti in carcere. Non solo il confronto è scorretto: è strumentale.
Se vogliamo affrontare seriamente il problema del sovraffollamento e della rieducazione, dobbiamo pretendere dati solidi, rilevati con metodi equivalenti e nello stesso arco temporale. Solo così possiamo capire dove intervenire, e come. Perché una politica fondata su statistiche deformate non è una politica: è un gioco pericoloso, e a rimetterci sono i cittadini.
A ciò si aggiunge un paradosso che non può essere ignorato. Le persone che erano già in regime di misure alternative – e quindi non contribuivano al sovraffollamento carcerario – sono state ugualmente liberate in anticipo. Se la messa alla prova è ritenuta altamente rieducativa, perché interrompere prima del tempo un percorso considerato efficace? E cosa accade quando chi era fuori torna a delinquere, viene arrestato per reati più gravi e torna direttamente in cella? Accade che contribuisce, lui sì, al sovraffollamento che si voleva evitare. È una spirale rovesciata che mostra tutta l’incoerenza e l’inefficacia della misura.
Possiamo definirla una follia di Stato? Una clemenza che, per ragioni ideologiche o politiche, finisce per rafforzare proprio quelle dinamiche che pretendeva di correggere. Si ha l’impressione che il sovraffollamento venga periodicamente “risolto” solo per creare le condizioni favorevoli a nuove misure di clemenza, con effetti tutt’altro che educativi o stabili. Un’alternanza che diventa funzionale a logiche di consenso e compromesso, mai dichiarate, mai trasparenti.
Ma ciò che più conta, in questo discorso, non sono i numeri. Sono le persone. Nella percentuale tanto decantata – sia essa il 10%, il 33%, il 70% – non ci sono solo detenuti. Ci sono anche cittadini, famiglie, bambini, donne, uomini innocenti. Ci sono le Vittime. E le Vittime, quelle vere, non vanno conteggiate come effetto collaterale. Sono il cuore stesso del fallimento morale di queste misure.
Quando uno Stato decide consapevolmente di liberare soggetti condannati, deve assumersi la responsabilità di ogni azione che questi potranno compiere. E deve rispondere, anche simbolicamente, di ogni vita spezzata dopo la liberazione. Il costo sociale non si misura solo in euro o in metri quadri carcerari. Si misura in corpi, in nomi, in volti. In dolore. Un costo a volte irreparabile.
Ecco alcuni nomi. Alcune storie. Alcuni esempi, purtroppo non isolati.
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Salvatore Buglione, accoltellato al cuore da un indultato durante una rapina mentre chiudeva l’edicola della moglie.
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Antonio Pizza, 28 anni, padre di un neonato, morto dopo una rapina compiuta da un criminale slavo liberato pochi giorni prima grazie all’indulto.
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Aniello Scognamiglio, 16 anni, travolto e ucciso da un uomo ubriaco e drogato al volante, fuori per indulto.
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Paolo Cordova, farmacista, ucciso da chi prima dell’indulto aveva già commesso sei rapine.
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Luigia Polloni, strangolata da un tossicodipendente con 25 precedenti, fuori grazie all’indulto.
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Antonio Allegra, morto per mano di Pietro Arena, con un tentato omicidio alle spalle, liberato anch’egli.
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Barbara Dodi, madre di due figlie, uccisa dal marito già condannato per tentata rapina.
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Guido Pelliciardi e Lucia Comin, seviziati e uccisi da tre stranieri con precedenti, beneficiari del provvedimento.
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Antonella Mariani, 77 anni, uccisa da un eroinomane uscito pochi mesi prima per l’indulto.
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Florinda De Martino, 35 anni, uccisa a colpi d’ascia da un uomo che aveva già tentato di assassinare la ex moglie.
Queste persone sono morte d’indulto. Una sorta di condanna a morte autorizzata dallo Stato, che nessun “umanitario” ha mai realmente preso in carico. E sono solo una parte – piccola ma sufficiente – per parlare di responsabilità istituzionale. Di complicità civile.
Si parla spesso dell’articolo 27 della Costituzione, della funzione rieducativa della pena. Ma si dimentica che lo stesso articolo prevede la responsabilità personale del reo. E quella responsabilità non può essere cancellata per decreto. La clemenza che disconosce il danno prodotto è inganno, non giustizia. Le Vittime oggi sarebbero vive se quella clemenza non fosse mai esistita. Ma sono morte. E per nulla. Per un’illusione.
Perché, dopo appena due anni, le carceri erano di nuovo sovraffollate. Perché il problema non fu risolto, ma rimandato. Perché l’unico “successo” fu quello di dare un respiro politico a chi, nel frattempo, si vantava di aver umanizzato il sistema. Umanizzato? Mentre fuori e dentro le carceri si continuava a morire.
Sì, parliamo di diritti umani. Parliamo di dignità. Ma facciamolo anche per chi non ha più voce, per chi è stato lasciato morire da una misura “collettiva” in cui non era prevista la parola Vittima. La libertà vera – quella che ha valore – è solo quella che rispetta i confini delle libertà altrui. Tutto il resto è arbitrio. E l’arbitrio, quando diventa legge, non è progresso. È barbarie di Stato.


