Si parla spesso di eccesso di custodia cautelare. Ma chi sono i detenuti in attesa di giudizio? E perché il nostro sistema consente a soggetti pericolosi, già condannati per reati gravi, di tornare liberi? Un’analisi lucida che distingue tra giustizia garantista e giustizia cieca, con un caso emblematico: la morte del piccolo Tommaso Onofri.
Un dato che inganna: chi è davvero in attesa di giudizio?
Nel dibattito sul sistema penale italiano, uno dei dati più citati – e spesso fraintesi – è quello secondo cui circa il 40% dei detenuti in custodia cautelare, potrebbe essere innocente. Ma come spesso accade, la statistica dice poco se non viene analizzata alla luce della realtà che intende rappresentare.
Nel 2013, su 64.564 detenuti presenti nelle carceri italiane, 24.744 erano in attesa di giudizio. Ma questo dato, che genera un allarme diffuso sulla presunta “detenzione preventiva di innocenti”, richiede una lettura più profonda. Chi è in custodia cautelare non si trova lì per caso: si tratta di soggetti per cui sussistono gravi indizi di colpevolezza e, soprattutto, esigenze cautelari concrete. Si teme la fuga, la reiterazione del reato o l’inquinamento delle prove. In molti casi, parliamo di persone colte in flagranza, oppure con un impianto probatorio solido. Il 6,9% ha a carico più procedimenti penali. Eppure, è vero: in Italia si è abusato, e si continua ad abusare, della misura cautelare.
Abusi e distorsioni: quando la custodia preventiva diventa pena anticipata
L’uso sproporzionato della custodia in carcere per reati che potrebbero essere monitorati con sistemi alternativi, come la sorveglianza elettronica o l’obbligo di dimora, rappresenta un vulnus che ha radici profonde. A partire dall’epoca di “mani pulite”, la custodia preventiva ha smesso di essere misura eccezionale, trasformandosi spesso in strumento anticipatorio della pena. Un errore giuridico, ma anche etico. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella nota sentenza Torreggiani, ha richiamato l’Italia a un uso più proporzionato, citando la Raccomandazione R(80)11, che invita a privilegiare strumenti alternativi: dal divieto di espatrio alla cauzione, fino al controllo elettronico.
I numeri parlano chiaro. Ogni anno vengono avanzate circa 2.500 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. Secondo l’Eurispes e l’Unione delle Camere Penali, a essere effettivamente riconosciuti innocenti saranno in media il 3,87% dei detenuti totali. Una percentuale apparentemente esigua, ma che diventa enorme se consideriamo il valore della libertà e la devastazione che comporta, per chi ne viene privato ingiustamente. Per queste persone non c’è solo una cella: c’è l’etichetta sociale, la reputazione infangata, la fatica immensa di ricostruire una vita.
Un’ipotesi, forse scomoda ma concreta, sarebbe quella di prevedere un intervento normativo urgente per distinguere – già nelle prime fasi – i casi in cui l’apparato probatorio è debole e la custodia può essere sostituita con misure meno invasive.
Tre gradi di giudizio: lentezza, convenienze e rischio prescrizione
Tornando a quel 40% tanto discusso, va considerato un altro elemento cruciale: i tre gradi di giudizio. Di quei 24.744 detenuti in attesa, 12.348 sono ancora aspettano il giudizio di primo grado. Una larga parte resta in carcere per periodi inferiori all’anno, poiché la custodia cautelare è a termine. Ma ben 6.355 sono appellanti: hanno già ricevuto una condanna in primo grado e ora aspettano l’esito del secondo. Altri 4.387 attendono il verdetto della Cassazione, cioè il terzo grado, che valuta solo vizi formali e, nella migliore delle ipotesi, rimanda a un nuovo appello.
Il problema è che in Italia il 70% degli imputati condannati in primo grado ricorre in appello. Non per dimostrare la propria innocenza – ribaltamenti completi di sentenza sono rari – ma perché la legge, vietando la reformatio in peius (cioè l’aggravamento della pena se a impugnare è solo l’imputato), rende conveniente tentare un’attenuazione. In più, la lentezza del sistema lascia aperta la via della prescrizione, che – sia chiaro – non è assoluzione, ma estinzione del reato per decorso del tempo.
Nei sistemi europei, tutto questo è molto diverso. In Spagna e Francia, l’accesso all’appello è più difficile, regolato da filtri rigorosi. In Inghilterra, solo il 10% degli imputati condannati in primo grado presenta ricorso, anche perché, se lo fa, rischia seriamente un aggravio di pena. Dunque, quando si cita il “dato europeo” sulla minore incidenza della custodia cautelare, si dovrebbe considerare anche il modello processuale, che in Italia – con i suoi tre gradi estesi – moltiplica i tempi e, di conseguenza, le permanenze in carcere “non definitive”.
Il caso di Tommaso Onofri: quando l’assenza di custodia uccide
Ma vi è anche l’altra faccia della medaglia. Quando lo Stato non trattiene soggetti pericolosi – seppur già condannati in primo e secondo grado per reati gravissimi – gli effetti possono essere devastanti. Lo dimostra il caso drammatico del piccolo Tommaso Onofri, rapito e ucciso da Mario Alessi.
Alessi, all’epoca del delitto, era già stato condannato per violenza sessuale, rapina a mano armata e sequestro di persona. Due giovani, aggrediti nel 2000, raccontarono di essere stati legati, minacciati con pistole e coltelli, e costretti ad assistere a una violenza carnale. Alessi fu riconosciuto e arrestato. Il giudice scrisse: “una personalità violenta, pericolosa, con alto rischio di recidiva”. Eppure, dopo solo nove mesi, la custodia cautelare scadde. La legge non consentiva di trattenerlo oltre. Fu quindi sottoposto a obbligo di dimora. Nel 2002 fu condannato a sei anni. Nel 2004, la Corte d’Appello confermò la condanna. Ma in attesa della Cassazione, Alessi era tecnicamente “libero”. Libero di uccidere un bambino: nel 2006 rapì e uccise Tommaso.
Chi è responsabile di quella morte? Chi ha lasciato libero un uomo con due condanne e una pericolosità conclamata? Siamo sinceri: è lo Stato. Perché in nome di un garantismo estremo – dove la libertà dell’imputato vale più della sicurezza della comunità – abbiamo lasciato che un bambino innocente morisse per mano di un predatore.
Per questo, se da un lato la custodia cautelare va limitata con rigore dove non c’è ancora una condanna né prove sufficienti, dall’altro lato essa deve essere rafforzata nei casi di condanne per reati contro la persona, in cui la sicurezza pubblica è a rischio. È una questione di equilibrio, ma anche di priorità costituzionale. L’articolo 16 della Costituzione sancisce che la libertà può essere limitata per motivi di sanità e di sicurezza. E tra libertà e vita, non può che prevalere la seconda.
Perché una giustizia che protegge solo l’accusato, dimenticando l’innocente, non è giustizia. È debolezza istituzionale travestita da civiltà.


