Bud Spencer. Intervista di Barbara Benedettelli (pubblicata su Il Giornale qualche primavera fa) al “gigante” buono che ci ha lasciati il 27
Quando sono entrata nell’ufficio di Paolo Liguori l’ho trovato in piedi, davanti a un enorme televisore Media Scope con in mano una sorta di joystickcon cui riempiva lo schermo di quadretti che trasmettevano i programmi di decine di reti. Un vero «smanettone» che nonostante l’età e l’approccio tardivo alle nuove tecnologie non teme la concorrenza dei giovani più agguerriti.
Nella vita e nella professione di Paolo Liguori i «punto e a capo» sono costanti. Chiusure e ripartenze continue, con un privato quasi nascosto nel politico e un politico trasparente fino alla provocazione. È stato un militante di Lotta continua. Uno degli esponenti più giovani di quella organizzazione extraparlamentare della sinistra rivoluzionaria guidata da Adriano Sofri, formata da ragazzi tra i sedici e i venticinque anni.
Liguori, quando nel ’76 Lc si sciolse e qualcuno passò a Prima Linea, qualcun altro ha continuato un’altra lotta: quella per ottenere i primi posti nel mondo della comunicazione.
«Sono passati quarant’anni. Oggi abbiamo tutti superato i sessanta. Se facessimo un raduno scopriremmo che uno lavora in banca, l’altro nella comunicazione e l’altro ancora è morto per overdose di eroina. La tv era appena nata. È normale che molti giovani di allora oggi siano nel campo della comunicazione, al di là delle loro appartenenze ideologiche».
Per quanto la riguarda, cosa è accaduto quando Lotta continua si è sciolta?
«Non tutta la generazione che ha fatto il ’68, o il ’71, ha poi scelto la violenza e la lotta armata che hanno contrassegnato il periodo dal ’78 in poi. La vera differenza non è tra un ex di Lc che lavora nel mondo della comunicazione o uno disoccupato. È tra chi scelse di chiudere quell’esperienza e chi invece scelse di andare avanti in altre forme. Io la considerai chiusa. L’ideologia per me non contava più niente. Era un fardello inutile. Preferii l’avventura della vita».
E del giornalismo.
«Sì. Alcuni di quelli che erano miei amici, nel ’78 sono arrivati alle minacce anche fisiche con le bande armate. Inneggiavano al sequestro di Moro. Io ero cronista per il quotidiano Lotta continua che sotto la direzione di Deaglio, vicino al partito socialista, fece una campagna per la vita di Moro. Ho cominciato come cronista precario per i quotidiani e per le tv locali, sono passato a Bresciaoggi, al Giornale di Sicilia. Poi sono arrivato al Giornale di Montanelli. Il mio primo lavoro con contratto nazionale».
Montanelli non era certo di sinistra. Non male per uno che arrivava da Lc.
«La sinistra lo dipingeva come fascista reazionario e intollerante. Il mio fu un passaggio forte. Decisivo. Nei dieci anni precedenti mi era capitato di trovarmi bene con persone di destra che poi sono andate al Giornale e si sono ricordate di me. Nonostante pensieri politici opposti, sul lavoro ci siamo trovati bene. Quando si liberò un posto, il caporedattore di allora andò da Montanelli e disse : “Vorrei prendere questo giornalista. È molto bravo, ma è di sinistra”. Montanelli accettò subito. In quel periodo prese anche la Palombelli, Mughini. Sentiva la necessità di riportare a galla certi valori».
Dunque berlusconiano lo diventò prima di arrivare a Studio Aperto.
«Berlusconiano era anche Il Sabato che ho diretto io. Il Cavaliere lo aveva finanziato. Pensi che la pubblicità la raccoglieva Lupi, l’attuale vicepresidente della Camera in quota Pdl».
Cosa pensò quando Montanelli si “allineò” con la sinistra contro il Cavaliere?
«Il suo non era un sentimento razionale. Era viscerale. Il nemico del nemico era suo amico. E in quel momento il nemico era Berlusconi che costretto a cedere il Giornale dalla legge Mammì, lo diede al fratello Paolo. Successione logica visto che era un bene di famiglia. Ma nella testa di Montanelli il padrone era ancora lui e visse questa cosa come un affronto. Così pur di colpire il Cavaliere era disposto a baciare quella stessa sinistra che poco prima lo aveva gambizzato».
Cosa pensa invece della svolta di Fini?
«Di Fini mi stupisce questa sua costruzione di un personaggio irreale. I finiani mi dicono : “Proprio tu parli, che nel corso della vita hai cambiato tante volte?”. Io di ogni cambiamento sono capace di ricostruire e spiegare la ragione e la sostanza. Di lui non si riesce a individuare né l’una né l’altra. La sua opposizione a Berlusconi è molto più forte, evidente, conclamata e ripetuta di quanto non lo siano i contenuti. Altri deputati del Pdl nel tempo hanno sostenuto alcuni contenuti simili ai suoi. Ma non è successo nulla. Perché fa così?».
Tra la gente circola la stessa domanda.
«Queste posizioni sono ancor più inspiegabili proprio perché in mezzo c’è il popolo. Cosa direbbe la gente se si andasse al voto? “Ma tu non sei quello che ha sfasciato il progetto nel quale abbiamo creduto?”. Il suo comportamento non ha logiche politiche. Allora viene spontaneo chiedersi se è mosso da logiche personali. E se si misurano le sue reazioni agli eventi ci si rende conto che la tensione si alza quando viene tirata in ballo la famiglia».
Ogni uomo difenderebbe la propria famiglia.
«Non al punto di dare la sensazione che cadrebbe lui pur di fare cadere Berlusconi. Mi chiedo anche perché si ritiene attaccato solo dal Giornale. Libero ne parla tutti i giorni. Dunque? Ce l’ha con Feltri? Pubblica notizie false? Berlusconi ne ha preso le distanze dichiarando che vende. Tra i nomi si è fatto anche quello della Santanchè. Ce l’ha con lei? Noi non lo sappiamo. Però se è così l’interesse personale del presidente della Camera fa un danno al Paese. Ci troviamo di fronte a un conflitto d’interesse».
Torniamo a lei. Il suo Tgcom è un vero gioiello. Una sfida vinta.
«Ho lavorato molti anni per ottenere un’informazione moderna in cui internet può viaggiare insieme alla tv. Idea alla quale l’azienda ha creduto, venendo ripagata. La Rete è un mondo che esiste e comunica. La massa lo ha scelto. Chi ha responsabilità e possibilità di immettere contenuti controllati deve entrarci. Deve aiutare la gente a discernere trasmettendo una giusta sequenza di informazioni. È importante indicare percorsi chiari a chi non ha gli strumenti necessari per difendersi da chi urla più forte, o da chi ha più strumenti di semplificazione, o dal consenso. Ho diretto giornali, quotidiani, settimanali, Studio Aperto. Ho fatto programmi, l’opinionista in tv. Con la tecnologia ho completato un percorso. La sintesi di tutto questo sono io e il mio personale mondo lavorativo».
Quanta parte ha nella sua vita il lavoro?
«Molto più spazio della vita privata».
La sua compagna da molti anni è una grande avvocatessa, Grazia Volo. Una storia che dura nonostante il poco tempo a disposizione.
«Grazia è una donna straordinaria. Intelligente e sensibile».
Vivrebbe senza di lei?
«No. Oltre che un’abitudine è un vizio. Ci accomuna la dedizione al lavoro. C’è una cosa che ci diciamo spesso e che sarebbe bello tutti potessero dire: “Noi facciamo esattamente il lavoro che ci piace fare”. Non tutti al mondo hanno questo privilegio. La gente si alza la mattina e va a lavorare per mangiare. C’è chi attraversa i mari per questo. Io mi sveglio ogni mattina con la consapevolezza che sono un privilegiato perché, al di là della notorietà e di un buono stipendio, ho quello che conta di più: posso fare quello che mi piace».
Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
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