«Mi ritrovavo per terra. Mi calpestavano, davanti agli occhi di mio figlio.» Un uomo, un padre. Ebreo. Picchiato in un autogrill italiano. In nome della giustizia. O presunta tale.
Violenza antisemita in autogrill
Succede in Italia, non in un campo di battaglia, ma in un luogo qualsiasi: un autogrill lungo l’autostrada A8. Villoresi Ovest. Una tappa come un’altra, una pausa per andare in bagno con il proprio figlio, sei anni appena. Indossano il kippah. Sono ebrei. E questo basta.
Vengono aggrediti verbalmente da quattro persone, tra cui una donna particolarmente violenta, al grido di Free Palestine. Nessun dialogo. Nessuna richiesta. Solo insulti, urla, intimidazioni. Il padre (francese, che non parla italiano) prende il telefono e inizia a registrare, forse per difendersi, forse per documentare ciò che non dovrebbe accadere. Una volta usciti dal bagno, li aspettano in gruppo. Non per chiedere spiegazioni. Ma per imporre obbedienza: cancellare il video, subito. L’uomo si rifiuta. Parte la violenza fisica. Calci. Pugni. Davanti agli occhi del bambino.
A fermare l’escalation non è la coscienza collettiva, non la reazione dei presenti. È una sola donna, una sola, che prende il piccolo per mano, lo porta via, lo protegge. Gli altri tacciono. Guardano e se ne vanno. O peggio: partecipano.
Non è politica, è disumanità
In un tempo in cui ogni gesto viene rivendicato come “politico”, è fondamentale ricordare che non tutto ciò che viene giustificato da una causa è legittimo. Non tutto ciò che si urla in nome di un popolo è atto di liberazione. Non tutto ciò che si fa contro un simbolo è resistenza.
Questo episodio, come tanti altri che restano invisibili, non è una discussione tra israeliani e palestinesi. Non è una guerra di bandiere. È un fallimento umano. È un uomo pestato perché ebreo, non perché responsabile di una guerra. È un bambino che impara, troppo presto, che il mondo può essere feroce. È un luogo pubblico dove l’identità può diventare una colpa. Quando le posizioni si trasformano in identità armate, si perde il senso, si perde l’empatia, si perde la misura del dolore umano. Quel padre non è stato visto come una persona, ma come un bersaglio. E questa è la vera sconfitta.
Il “tifo” che diventa violenza
Difendere il popolo palestinese, come ogni altro popolo martoriato dalla guerra di bombe, è legittimo. Anzi, è necessario, quando si tratta di proteggere civili innocenti e bambini. Ma non è difesa quella che passa dal pestaggio di un uomo inerme. Non è giustizia quella che si compie calpestando chi non ha fatto nulla. Non è attivismo. È barbarie travestita da causa.
In questo tifo ideologico, sempre più simile alle curve dello stadio, non c’è spazio per l’empatia, solo per lo sfogo. Forse, in parte, profondamente slegato dalla causa stessa e legato, invece, a ciò che si ha dentro. È il culto della posizione morale, non della compassione reale. È la soddisfazione narcisistica di sentirsi “giusti”, anche quando si compiono atti profondamente ingiusti. Barbari. È il volto più pericoloso del nostro tempo: quello di chi odia con la scusa dell’amare.
Nessuno era davvero in guerra
Il padre aggredito non è un soldato. Il figlio non è un nemico. Nessuno dei presenti ha visto Gaza, o Tel Aviv. Eppure, tutto si consuma come se si fosse su un fronte. Perché oggi le identità vengono strumentalizzate. Se sei ebreo, allora sei Israele, allora sei l’oppresso che diventa oppressore, allora sei punibile. E se difendi i palestinesi, allora puoi tutto, anche perdere il senso della realtà.
Ma quando la causa diventa più importante della coscienza, il rischio è di accettare che un bambino sia traumatizzato perché “dalla parte sbagliata”. Di giustificare la violenza. Un segnale gravissimo del degrado civile ed emotivo che sta colpendo molte società europee, Italia compresa. L’aggressione che ha subito quest’uomo ebreo, insieme a suo figlio di soli sei anni, non è un episodio isolato di intolleranza: è la manifestazione di un veleno che si sta diffondendo con sempre meno vergogna e sempre più impunità.
L’unica salvezza: chi ancora vede l’altro come umano
Da un lato l’aggressione fisica, violenta, davanti a un figlio terrorizzato; dall’altro, il vuoto morale di chi assiste e tace. In questo scenario cupo, resta una luce: quella donna. La sola ad aver agito. A non aver guardato altrove. A essersi ricordata che prima di ogni guerra, prima di ogni slogan, ci sono le persone. E che, se dimentichiamo questo, possiamo gridare “pace” quanto vogliamo: non ne saremo mai strumenti, ma ostacoli.
Non ci si salva scegliendo da che parte stare, ma scegliendo come comportarsi con chi ci sta davanti. E oggi, nel nostro mondo iperconnesso, dove tutti sembrano avere un’opinione su tutto, non è l’opinione che definisce l’umanità. È il gesto. Il grande inganno dell’attivismo narcisista contemporaneo: “Se mi indigno, allora sono buono. Se combatto, allora sono giusto. Se odio chi reputo oppressore, allora sono libero.” No. Non è così. Perché se nel tuo gesto non c’è giustizia per l’individuo, allora non stai cambiando il mondo. Lo stai peggiorando.
È un paradosso terribile: ci si sente più umani sostenendo una causa lontana, e ci si dimentica dell’umanità davanti a sé. Forse, allora, il vero atto politico oggi è vedere davvero l’altro, proprio quando ci è più difficile farlo. Come quella donna che ha salvato, almeno in parte, lo sguardo di un bambino. In quel gesto minimo, c’è ancora tutta la dignità che resta. E su quella dobbiamo ricostruire.
Che bambino crescerà, dopo aver assistito a quella violenza?
Come si può difendere un popolo dall’oppressione usando l’oppressione contro un singolo essere umano che non ha fatto nulla? E suo figlio? Lo chiediamo poco, questo. Ma è forse la domanda più importante. Che sguardo avrà quel bambino? Cosa imparerà sul mondo? Che essere ebreo è un rischio? Che se sei “giusto” puoi colpire chi vuoi? Che la violenza si misura a seconda della bandiera?
Il motivo dell’aggressione non era una minaccia, ma la sola visibilità dell’alterità (il kippah). Bastato per moltiplicare l’aggressività collettiva, come accade spesso oggi, in un contagio dell’odio, dove la coscienza individuale evapora nel branco. E diventa barbarie travestita da militanza.
Non si tratta di scegliere tra Israele e Palestina. Si tratta di scegliere tra umanità e disumanità. Qui l’umanità è stata completamente calpestata. Letteralmente. Non basta essere dalla parte “giusta” se i mezzi sono sbagliati. L’ideologia – sia essa religiosa, politica o umanitaria – quando diventa cieca e narcisistica, non libera, non emancipa, divora la realtà.
Il padre ebreo e suo figlio non sono Netanyahu, non sono Tsahal, non sono l’esercito, non sono politici. Sono esseri umani. E gli aggressori, probabilmente non conoscono nemmeno davvero la complessità della causa che urlano come uno slogan. Eppure agiscono. In nome di cosa? Di una rabbia moralmente seducente, che non è compassione, ma puro sfogo mascherato da virtù.
Non possiamo costruire un mondo migliore ignorando queste domande. O facendo finta che siano irrilevanti. Perché, in fondo, il mondo che costruiamo si decide anche nelle aree di sosta. Nei gesti piccoli. Nei silenzi colpevoli. Nelle solitudini coraggiose.
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