Mario Alessi ha ucciso un bambino mentre era già condannato per stupro e rapina. Oggi potrebbe uscire a lavorare. Ma Tommy, il piccolo che ha ucciso, è dentro una bara per sempre. Cosa dice questo della nostra giustizia? Un articolo che chiede con forza: quanto vale davvero una vita umana?
Quando la libertà vale più della vita, abbiamo smarrito la giustizia
Tommy Onofri aveva diciotto mesi quando è stato condannato a morte. Non da una sentenza, ma da chi – pur già condannato per reati gravissimi – era libero di muoversi e di colpire ancora. Il suo assassino, Mario Alessi, aveva già due condanne definitive sulle spalle per stupro, rapina a mano armata e sequestro di persona. Eppure, nel 2006 era fuori. Oggi, potrebbe lavorare all’esterno del carcere.
Se ne parlò nel 2013. Poi ancora nel 2015. Poi silenzio. Ora se ne torna a parlare, perché mamma Paola Pellinghelli lancia un appello: che Alessi e gli altri condannati per la morte del piccolo Tommy scontino per intero la pena che è stata loro assegnata. Senza benefici. Senza scorciatoie.
Perché Tommy è sepolto. E lo sarà per sempre. Ma il suo assassino, grazie alla legge, potrebbe tornare a lavorare. Camminare. Respirare la libertà. La stessa libertà che ha usato per uccidere.
Una giustizia che dimentica la sua funzione più alta
Il caso Alessi non è un incidente. È il frutto di una giustizia che ha perso la bussola. L’uomo che ha tolto la vita a un bambino era in libertà condizionata, in attesa del terzo grado di giudizio per un altro procedimento. Era già stato riconosciuto socialmente pericoloso, eppure godeva di una misura alternativa alla detenzione.
Quella libertà, concessa a chi aveva già calpestato ogni principio di umanità, è stata usata per rapire e uccidere un bambino indifeso. Un atto irreparabile. Una tragedia annunciata.
Eppure oggi, a distanza di anni, si discute se Alessi abbia diritto a lavorare fuori dal carcere. Se sia “cambiato”. Se meriti una seconda occasione. Ma qui non si tratta di sapere se Mario Alessi sia cambiato. Si tratta di stabilire quanto vale la vita di un bambino. E quanto vale la libertà che gli è stata tolta per sempre.
Il valore della vita non si sconta
Viviamo in un Paese in cui si fanno sconti su tutto. Sui prezzi, sulle tasse, sulle pene. Ma ci sono beni non negoziabili. Come i diamanti, come la dignità, come la vita. Non si chiedono sconti sul costo della carne al supermercato, eppure accettiamo che si facciano sconti di pena su chi ha spezzato una vita.
Qual è il prezzo della nostra esistenza? Davvero crediamo che pochi anni di libertà negata possano ripagare la morte di un bambino? Possiamo tollerare che chi ha commesso uno dei più orrendi delitti della storia recente italiana sia autorizzato a uscire, mentre il piccolo Tommy giace in una bara e sua madre è condannata all’ergastolo del dolore?
No. Non possiamo. E non dobbiamo.
La memoria è l’unico antidoto all’indifferenza
“L’indignazione ha bisogno della memoria come del pane e dell’aria”, ha detto don Luigi Ciotti. Ed è vero. La memoria è ciò che impedisce all’indifferenza di normalizzare l’orrore. Per questo dobbiamo ricordare non solo Tommy, ma anche chi gli ha fatto cosa. E dobbiamo pretendere che la vita non venga svalutata, che non diventi un parametro flessibile, manipolabile, svendibile.
La giustizia non può essere una bilancia che pesa più la libertà del carnefice che la vita della Vittima. Se davvero vogliamo dirci civili, dobbiamo iniziare da qui: dalla certezza che alcune vite – soprattutto quelle strappate all’inizio – non possono essere restituite. Ma possono e devono essere onorate. Con la verità. Con la memoria. E con pene che siano all’altezza della tragedia.


