L’ergastolo del dolore. Intervista a Rosanna Landi

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Qui una piccola parte del Diario dell’Assenza che Rosanna Landi ha scritto nei due anni successivi alla morte violenta del marito Roberto. 

Sono Roberto Landi, ex assessore comunale di Villaricca (Napoli) e titolare di un centro medico, e sono morto a 47 anni, il 23 aprile del 2009, pensando forte, e un’ultima volta, ai miei figli e a mia moglie. Lo credevo un agente immobiliare. Per questo gli avevo affidato 300 mila euro solo qualche settimana prima di scoprire la truffa: non ha comprato nessuna casa. Ha tenuto i soldi. Minaccio di denunciarlo e lo piego. Viene a prendermi per restituire il denaro. Salgo sulla sua macchina fino a una casa di Licola Mare. Una casa vuota. Qui trovo altre tre persone, tendo loro la mano per presentarmi. M’immobilizzano, alzano la musica dello stereo e mi ammazzano con quattro proiettili di arma da fuoco. Poi mi seppelliscono in spiaggia.  

Li hanno condannati in primo grado: sedici anni, ventisei anni, due ergastoli. La condanna darà un qualche sollievo alla mia famiglia. Io non ho ricevuto particolare conforto, perché la sabbia di Licola brucia ancora nella mia gola. Ora e per sempre. 

Tratto da: “Il Diario dell’Assenza”. 

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Il Diario del dolore, di Rosanna Di Crosta Landi

Roberto è stato ucciso, con premeditazione, undici giorni dopo il nostro diciassettesimo anniversario di matrimonio. Ho cominciato a scrivere poco dopo per dare voce al dolore che mi esplode dentro. È un’arma potentissima il dolore, annienta senza far rumore. È come un cancro che non giunge al sollievo della morte. La vita dei “sopravvissuti” scivola all’improvviso in uno stato di coma vegetativo. E’ assistere alla propria morte da vivi. E’ l’inferno in terra. Definitivo. Anche l’ergastolo da scontare in galera può non esserlo.  resize (1)

Dopo un paio di settimane dalla sua scomparsa, nello sforzo di riprendere i contatti con la quotidianità, mi sono avvicinata come un automa alla zona lavanderia. Ho aperto il contenitore della biancheria da lavare e mi sono resa conto, senza chiedermi il perché, che non strabordava come al solito. Dopo due giorni la situazione era uguale. Me ne sono sorpresa per poi portarmi, qualche istante dopo, le braccia incrociate all’altezza dello stomaco. Povera me! Finalmente capivo perché il cesto era semivuoto. Mancavano le sue camicie, i suoi pantaloni, i pullover taglia 52. Roba ingombrante perché lui era alto. Dal dolore mi sono piegata in due, mi sono ritrovata così, accovacciata accanto alla lavatrice a piangere. Certi giorni compongo il suo numero di telefono sperando che la mia ostinazione sia premiata. “Rispondi, ti prego. Solo per un ultimo addio”. Silenzio, freddo e indifferente.  

La difficoltà maggiore è accettare che questa è proprio la mia realtà, che non posso scappare. Viviamo in tempi nei quali avvocati e terapeuti lavorano per assistere le coppie in procinto di separazione. Ma chi può aiutare due che si amano, di cui uno è vivo e l’altro no? Sono innamorata di mio marito e lui non c’è più. Girassi il mondo non lo rivedrò più. Non sentirò più il calore delle sue mani, non ascolterò la sua voce, il suo respiro. Quando mi capita qualcosa ho l’istinto immediato di parlarne con lui, e lui non c’è. È una malinconia avvolgente. In certi giorni mi abbraccia forte fino a togliermi il respiro, in altri allenta la sua morsa e allora m’illudo di poter riattaccare i cocci, ma la frantumaglia rimane sul pavimento delle mie stanze. Ogni sera il mio cuore si preparava ad accoglierlo. Adesso apro la porta alla sua assenza che entra in casa, si siede accanto a noi, la sua famiglia, e comincia a parlare. E noi non possiamo fare altro che stare ad ascoltare. Qualcuno ha decretato la fine della nostra famiglia senza un perché. Poveri figli nostri, senza il loro insostituibile papà. Senza potersi più specchiare nei suoi occhi buoni che non ci guardano più. Siamo soli in balia delle fiere, per essere scarnificati. Quando un omicidio è vero stramazzi a terra in ginocchio, ti pieghi in due e ti viene da vomitare. Puoi perdere coscienza. E se ami tuo marito, se il tuo uomo è carne della tua carne come lo sono i tuoi figli, allora il dolore ti spacca. Non è come guardare un film. Non puoi voltarti dall’altra parte. È come se due mani potenti e cattive ti obbligassero a guardare. Inutile tentare di chiudere gli occhi, due dita altrettanto forti baderanno a tenerli aperti.  

Sono qui, pulsante e scoperta, e la mia agonia si protrae ferocemente e senza scopo. Ma so che imporsi una quotidianità e mettere in gioco una buona dose di dignità è l’unica via per onorare la sua memoria e non impazzire. Voi, figli miei, scintille di vita, ne avete pieno diritto, io ho il dovere di accompagnarvi. Alla gente chiedo di esserci, facendo un passo indietro o anche avanti se è opportuno, cercando di capire cosa significa agire quando si entra in esistenze così disastrate. Ci sono stati giorni in questi due lunghi anni senza di lui in cui ho pensato anche che se mi ammazzo lo metto nel sedere a “quelli che”. Gli faccio venire la vitiligine, i capelli bianchi e l’insonnia. Gli potrò girare  intorno sferragliando con il rumore assordante delle mie catene e i lamenti del mio dolore, notte e giorno, spaventandoli con l’aspetto esangue dell’ectoplasma che i vivi con la coscienza sporca temono da secoli di incontrare. Io, a “quelli che”, voglio togliergli la pace e il sonno, il gusto, il tatto, la vista e l’udito; gli voglio scarnificare le carni così profondamente da arrivare a lacerare gli organi interni. Non quelli vitali però, in modo tale da procurargli una lunga, cosciente e atroce agonia. Vorrei che vivessero conciati così – con tutta la cattiveria che hanno avuto sempre in corpo – sputando il veleno che gettano addosso alle brave persone, le stesse che, ignare, aprono la porta e li fanno entrare nella loro vita. Se non si parla del dolore e della perdita sociale e umana di ogni persona perbene, morta ingiustamente, ben presto sarà qualcosa che riguarderà tanti. Se chi disprezza la vita degli altri non viene fermato con determinazione la mattanza si alimenterà a gettito continuo. Non si può uscire la mattina, andare in ufficio e non tornare mai più perché l’ha deciso qualcuno per coprire i suoi abbietti traffici.  

Una mia amica per confortarmi mi ha detto: “Pensa alla Madonna”. Ci ho pensato. L’ho immaginata piegata sulle ginocchia, stremata e impotente ai piedi di una croce di legno dove suo figlio, in agonia e insozzato di sangue, ci era stato inchiodato per i piedi e per le mani da altri uomini. In agonia e nel sangue. Così immagino Roberto. Così è andata per lui. Ma per me non può esservi requie, perché io non sono in odore di santità. E’ raccapricciante per chi legge? Certi dolori non possono essere raccontati tra manierismo e ipocrisia. È la realtà. Quella che noi viviamo ogni giorno nell’indifferenza di chi preferisce credere che insieme a tuo marito sei morta anche tu, i tuoi figli, i loro progetti di studio, il loro diritto a ridere e sorridere, perché gli fa comodo così. Gli alleggerisce la coscienza. Noi esistiamo, siamo testimonianza viva e palpitante di ciò che è successo, siamo un pezzo di Roberto e della nostra vita. Una vita che non è più la nostra vita. Adesso è un rullo bianco che gira senza fermarsi mai. 

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Barbara Benedettelli

Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.

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