Possiamo davvero parlare di giustizia se il colpevole non riconosce la colpa? In questo articolo, una simulazione processuale mette al centro il diritto della Vittima, la responsabilità morale del reo e la necessità di una giustizia che non si accontenti di leggi ma pretenda verità. Perché la colpa, quando è vera, si assume. E redime solo chi la attraversa.
All’omicidio non si può mai dar ragione
L’omicidio non ha mai ragione. Mai. Non esiste giustificazione per un gesto che interrompe una vita. È pura espressione del male, nella sua forma più netta. Eppure, la cultura contemporanea cerca, quasi ossessivamente, di darne una lettura compatibile con l’umano. Ma c’è un confine che non può essere oltrepassato senza ferire la verità: quello tra comprensione e giustificazione. Comprendere non è assolvere. E l’assassino non è mai, mai comprensibile fino al punto da poterlo redimere con una spiegazione.
Per questo ribalto i ruoli. In questo esercizio morale, simbolico e civile, invito il lettore a sedere sul banco del giudice. Io sarò la difesa. Ma non del colpevole: difendo qui l’onore della Vittima. Difendo la dignità di chi non può più parlare, ma che esiste ancora nei cuori di chi l’amava, nella realtà infranta da cui è stata strappata. Difendo la Vita, non l’assassino. Difendo la memoria, non l’oblio. Difendo la giustizia come atto che restituisce significato al dolore.
L’arringa morale (simulazione di un’aula che restituisce dignità alla Vittima)
Silenzio in aula. L’accusa è l’epoca in cui viviamo, che pretende di sfumare ogni responsabilità, che trasforma l’assassino in vittima e la vittima in ostacolo. Ma qui la parola va alla difesa: chi ancora crede che ogni esistenza abbia diritto al rispetto, anche dopo essere stata soppressa. A chi ritiene che l’unica forma autentica di pentimento sia quella che nasce da dentro, nel cuore e nelle viscere, non quella costruita in aula con frasi suggerite.
Difesa: “Silenzio in aula! L’accusa afferma che le Vittime devono restare nell’ombra. Svuotate la mente. Fate tacere per un momento il rumore delle interpretazioni. Chiudete gli occhi e sentite il sangue che scorre nelle vene: è la Vita, signori. Senza di essa, tutto il resto è illusione. Ora riaprite gli occhi e guardatevi attorno: ogni volto che incontrate è una storia, una possibilità, una presenza. Ma oggi, c’è un volto che manca. Un volto che è stato cancellato con violenza. Guardate la madre di quel volto: la donna che ha generato la Vita e che ora ne raccoglie le ceneri. In lei si raccoglie tutto. Tutto ciò che resta.
E al centro della scena, c’è lui: l’autore del gesto irreparabile. L’assassino. Cosa nasconde quel cuore impenetrabile? Quali pensieri abitano la sua mente ora che tutto è compiuto? Prova rimorso? Soffre per ciò che ha fatto? O solo per se stesso, per il destino che lo attende? Guarda quella madre e riconosce l’orrore che ha generato, oppure la vede solo come un fastidio, un ostacolo alla propria liberazione?
Lo sente il grido di quella donna umiliata, a cui è stato perfino tolto il diritto al dolore, dal momento in cui l’avvocato del suo carnefice si affanna a minimizzare la sua tragedia, per ottenere la pena più leggera possibile? Sente la colpa? Se sì, perché non la vediamo? Perché non si manifesta in lacrime vere, in parole rotte, in segni profondi? Se davvero ha agito in preda a un raptus, se davvero era incapace di intendere e volere, ora che sa, ora che capisce, perché non si dispera? Perché non urla “perché l’ho fatto?” con la voce rotta di chi ha perso la propria umanità?”
La colpa che trasforma
La civiltà non è un fatto acquisito: è una costruzione continua, faticosa. È l’edificazione di un tempio in cui la differenza tra bene e male sia visibile, tangibile, riconosciuta. La colpa, se è autentica, si sente. Ha un odore, un peso, un segno. Marchia. L’assassino, nel momento in cui uccide, accende un incendio che brucia anche sé stesso. E la Vittima, morendo, diventa ferro rovente che si imprime sul volto del suo carnefice. Nessuno può restare intatto. Nessuno può uscirne innocente, neppure l’indifferente.
Ma questa bruciatura può segnare in modo diverso, a seconda del coraggio di chi resta. Può diventare il principio di una discesa nell’abisso, oppure la soglia di un ritorno possibile. Ma quel ritorno, se esiste, passa solo per la piena assunzione della colpa. Non per calcoli processuali, non per convenienza legale, non per pentimenti in saldo. Solo chi accetta fino in fondo la verità dell’orrore può cominciare a cambiare.
Il peso morale della colpa: Ester Prynne e la Lettera Scarlatta
Nel suo Il male assoluto, Pietro Citati descrive magistralmente la trasformazione di Ester Prynne, protagonista del romanzo di Hawthorne La lettera scarlatta. Ester accetta la condanna senza appellarsi a nessuno. Indossa quel segno infamante come dovere morale prima ancora che giuridico. Quando la comunità le offre di deporlo, lei rifiuta. Dice: “Se fossi degna di deporlo sarebbe caduto da solo, o avrebbe assunto un significato diverso.”
Ecco il punto. La colpa autentica non si difende. Si assume. Si porta con sé. Trasforma chi la riconosce. Il vero pentimento non è un rituale da codice penale. È un cambiamento interiore, radicale, che non mira a ottenere benefici, ma a restituire dignità. Perché la redenzione non è un diritto automatico. È una conquista. E la conquista più alta è quella che parte dalla consapevolezza che nulla potrà mai riparare ciò che è stato tolto.
Chi ha compiuto il male deve essere aiutato a comprendere ciò che ha fatto. Ma non con pietà preventiva. Con fermezza. Con verità. Con coraggio educativo. La sofferenza psicologica del reo non va temuta: è l’unico sentiero che può condurre alla comprensione autentica. E solo chi contempla, a occhi aperti, la propria colpa può davvero cambiare.


