La separazione, imposta o subita, richiede in ogni caso un cambiamento, una trasformazione che coinvolge sia l’intimità di una persona sia l’ambiente circostante in cui si muove.Da un parte l’anima e dall’altra il mondo. Aspettati un cambiamento a trecentosessanta gradi. Prima di adesso eravate una squadra formata da due individui, abitavate una casa comune, avevate amici, riti e abitudini consolidati nel tempo.Ora hai solo te stessa e da lì devi ripartire. Ostinarsi a rimanere attaccata alle vecchie dinamiche di coppia, non può che essere fonte di frustrazione e dolore. Soprattutto è un ostacolo al naturale corso degli eventi.
Il cambiamento ci conduce verso l’incerto. C’impone di partire senza conoscere la meta finale, ma costituisce una delle regole ferree che governano l’intero universo.
Tutto si evolve, opporre resistenza o lasciarsi trasportare dalla corrente è controproducente. Con la scelta di separarsi ti aspettano decisioni dolorose e scelte impopolari che spesso metteranno in discussione tutto il tuo vissuto.
Ma come potersi fermare? Il cambiamento talvolta è il risultato della presa di coscienza di un senso di malessere profondo che al momento non hai saputo riconoscere, o che invece hai messo a tacere per convenienza e apparente comodità.
Spesso la trasformazione nasce da una crisi la cui profondità è tanto più grande quanto più ampio è il senso d’insoddisfazione e di dolore provati.
Il rifiuto ad accettare il mutamento produrrà un meccanismo infernale in cui ci si troverà a vivere una condizione a dir poco castrante.
Sarebbe come se, nel momento in cui uno stadio della vita è arrivato a compimento, lasciando spazio a quello successivo, ci si privasse di qualcosa di prezioso conseguito fino a quel momento, qualcosa di essenziale come, ad esempio, l’uso di gambe e braccia.
Saresti costretta dall’impossibilità di muoverti a rimanere intrappolata in una situazione di stallo, in cui le condizioni essenziali della sopravvivenza hanno ormai subito un sostanziale cambiamento.
Per essere più chiara, ti troveresti in una sorta di sospensione in cui la paura del futuro e la nostalgia del passato, senza l’intervento di un’azione concreta, ti porterebbero se non alla morte, sicuramente all’immobilità.
Saresti come una libellula che nel momento della penultima mutazione, – in cui dalla condizione di larva passa a quella di ninfa -, arresta la sua evoluzione nel seguente modo.
Invece di uscire dall’acqua e posarsi su un ramo, in attesa che le rudimentali ali si fortifichino per spiccare il primo volo, la ninfa, in balia della paura di volare, rivolge la tenaglia che generalmente usa per procurarsi il cibo verso le sue stesse ali, ancora sottili e incomplete, compromettendone quasi del tutto l’utilizzo.
Poi, accorgendosi della felicità delle compagne che si librano nell’aria e ormai impossibilitata a seguirle, si lascia cadere dal ramo, e non più in grado di respirare sott’acqua, alla fine muore.
Non potendo più tornare allo stadio precedente e privatasi degli strumenti necessari per vivere la sua condizione attuale, la libellula non riesce a far altro che lasciarsi cadere e morire.
Il ciclo di vita delle libellule, da questo punto di vista, è assolutamente emblematico. Da creature degli abissi si trasformano in meravigliosi insetti dalle livree metalliche e iridescenti, la cui prodigiosa capacità di librarsi nell’aria, è fonte di curiosità e meraviglia da parte di naturalisti e poeti.
La larva, al contrario, è un organismo poco attraente: è vorace e aggressiva, munita di una tenaglia affilatissima che estroflette con estrema velocità per catturare le prede. Nell’arco della sua vita può arrivare fino a quindici mutazioni, ma solo quella finale le regalerà quattro splendide ali che le permetteranno, nell’ultimo breve periodo della sua vita, di destreggiarsi in volo ammirata e sicura.
Lo stesso processo accade anche a noi. Nell’iter da larve mutanti a ninfe ci vengono forniti i mezzi che completeranno la nostra crescita.
Come ninfe viviamo uno stadio intermedio, in cui abbandoniamo una condizione conosciuta, quella abissale, per affacciarci a un mondo che ancora non conosciamo e non riusciamo neanche ad immaginare.
Come la ninfa che, contorcendosi per trasformarsi in farfalla, teme la fine del suo mondo, noi ci preoccupiamo per la fine del nostro.
La paura di passare da una condizione primitiva, considerata l’unica possibile, c’impedisce di accettare il cambiamento che ci condurrà a seguire il nostro destino e a diventare pienamente noi stesse.
In alternativa, rimarremmo bambine inconsapevoli intrappolate in un corpo adulto, creando così un’inevitabile dissonanza tra come noi realmente siamo e come ci vede il mondo. Tra noi e la nostra immagine allo specchio.
Permettere alla vita di fare il suo corso, accettando la legge universale del cambiamento, è il segreto per poter vivere serenamente, imparando ad assecondare le sue fasi per quanto improvvise e dolorose possano essere.
Noi non siamo larve, ninfe, o bruchi ai quali non è concesso riflettere o evolversi. Al contrario degli animali, abbiamo, oltre all’istinto e alla ragione, la facoltà di scegliere e decidere quale direzione prendere.
Al pari di un frutto, che appena mangiato, si trasforma diventando parte di noi, allo stesso modo il nostro corpo cambia continuamente.
Alla fine dei suoi giorni diventa polvere. Diversamente, la nostra anima è condannata a una sorta d’inesorabile bisogno di completezza che si esprime nel corso della vita senza soluzione di continuità. Il motivo?
I nostri progenitori biblici, Adamo ed Eva, hanno disobbedito a Dio cogliendo il frutto proibito. Con questo gesto hanno spezzato una condizione di perfezione ed eterna serenità della quale però non erano consapevoli, poiché non ne conoscevano l’alternativa.
A partire da quel memorabile gesto, i due abitanti dell’Eden hanno condotto l’umanità in una condizione d’ambivalenza, di precarietà e persistente tristezza. Ma soprattutto, hanno costretto il genere umano a una condizione di continuo cambiamento.
Tratto da Punto e a Capo di Barbara Benedetteli ( Mondadori, 2004)