Possiamo parlare di giustizia se chi ha agito con dis-umanità torna libero e le Vittime restano sole? Questo articolo pone dieci domande civili e cruciali al Ministro della Giustizia: interrogativi che toccano il cuore del sistema penale, il senso della pena e la responsabilità delle istituzioni nel proteggere la Vita. Senza risposte, nessuna riforma sarà credibile.
Per il Ministro in carica, e per la coscienza collettiva
Si afferma spesso, per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario, che occorra partire da una nuova prospettiva culturale. Una visione in cui la pena detentiva non sia la sola opzione possibile, ma una tra le molte, da adottare solo come extrema ratio.
Sì, è giusto partire da qui. Ma guai a dimenticare che ogni partenza implica un percorso fatto di tappe, e alcune di queste non sono negoziabili se davvero vogliamo raggiungere la meta: una giustizia efficace, equa, civile. Se il prezzo della clemenza ricade sui corpi degli innocenti, allora quella clemenza ha il volto dell’ipocrisia.
La storia di Emiliana Femiano: vittima due volte
Partiamo allora da un fatto: è il 20 dicembre 2009. Emiliana Femiano riceve dieci coltellate. Si salva, per miracolo, grazie al coraggio di un passante. L’ex fidanzato, autore dell’aggressione, viene condannato a otto anni per tentato omicidio. Due giudici, con lucidità, rifiutano di concedergli i domiciliari, dichiarando che si tratta di una personalità “particolarmente violenta, trasgressiva, priva di autocontrollo, con rischio concreto di recidiva”.
Passano appena cinque mesi. È agosto. Mese ideale per far dimenticare alla macchina giudiziaria ciò che ha già scritto. Il detenuto torna a casa. Un posto dove la libertà è vigilata solo sulla carta. Emiliana, attirata con un tranello da complici, viene massacrata con 66 coltellate. Non è più tentato omicidio. È omicidio consumato. È fine della speranza. E morte della giustizia.
Stato di diritto o complicità di Stato?
C’è un colpevole, certo. Ma ci sono anche dei mandanti morali e istituzionali: una legge che non protegge la Vita, una magistratura che esercita la propria discrezionalità come se non dovesse mai risponderne a nessuno, neppure alla coscienza. Chi ha firmato quella scarcerazione porta sulla propria schiena una parte del peso di quel sangue. Non possiamo ignorarlo.
Ogni volta che lo Stato consente la morte di una persona che avrebbe potuto e dovuto essere protetta, lo Stato stesso è corresponsabile. È accaduto ad Emiliana. È accaduto ad Anna Fiume, uccisa dal figlio tossicodipendente già detenuto. È accaduto, accade, accadrà ancora se non si pone un limite. Se non si afferma con chiarezza che il primo, assoluto diritto da tutelare è la Vita.
Perché senza la Vita non c’è libertà da rieducare, non c’è sistema da correggere, non c’è progresso da difendere. Se la clemenza produce morte, allora è solo un eufemismo per complicità. E in una società che punisce i reati patrimoniali con più severità dei reati contro la persona, siamo costretti a domandarci se il denaro abbia davvero sostituito l’essere umano nella scala dei valori.
Il valore della pena: giustizia o illusione?
Non esistono “reati minori” contro la persona. Nemmeno se la pena prevista è di un anno. Non si può considerare “secondario” un reato solo perché la sua retribuzione penale è modesta. Dietro ogni aggressione, ogni violenza, ogni minaccia, c’è una persona violata nei propri diritti fondamentali.
Dobbiamo tornare a parlare, con coraggio, di certezza della pena. Non come vendetta, ma come fondamento democratico, come garanzia per chi nella società civile vive rispettando le regole. Perché se la pena diventa aleatoria, anche il patto sociale si sgretola. E ogni cittadino sa che, senza regole applicate, ogni giorno può diventare il giorno in cui toccherà a lui essere ucciso con un piccone, una corda, un’arma da fuoco. Anche da chi era stato liberato “per un principio”.
A questo punto, mi permetto di rivolgere dieci domande sulla giustizia al Ministro in carica. Non per sfiducia, ma per trasparenza. Perché sulla giustizia non si può più tacere.
Dieci domande per il Ministro della Giustizia
1. Può affermare oltre ogni ragionevole dubbio che un provvedimento di clemenza non genererà nuove Vittime?
2. Lei ha giurato di agire nell’interesse esclusivo degli italiani. Ritiene che ogni misura di impunità, palese o mascherata, risponda davvero a questo interesse?
3. Se sì, in quale forma concreta si manifesta tale interesse collettivo?
4. Esiste presso il Ministero della Giustizia un’unità preposta alla valutazione dell’impatto sociale di questi provvedimenti?
5. È attivo un sistema che monitori la relazione tra benefici penali e recidiva?
6. In caso di nuova Vittima provocata da uno scarcerato, chi ne risponde, moralmente e politicamente?
7. Che cosa si intende oggi, in termini chiari e misurabili, per “pena equa”?
8. Cosa significa, nel concreto, affermare che il carcere deve essere “extrema ratio”? Quali sono i limiti?
9. Cosa risponde a quelle Vittime che oggi si sentono abbandonate dallo Stato?
10. Può elencare in modo trasparente quali reati beneficeranno delle nuove misure e spiegare ai cittadini come sarà gestita la recidiva, in termini di tutela della salute, dell’integrità e della vita?
Non ho soluzioni facili. Ma ho una domanda che mi brucia da anni: perché ci ostiniamo a proteggere chi distrugge, mentre lasciamo esposte alla morte persone che chiedono solo di vivere? La giustizia è una cosa seria. E la Vita non è mai un dettaglio. Aspettiamo risposte. Tutti. Ma soprattutto chi non c’è più.


