Clic, like, view. Siamo noi il prodotto: il capitalismo della sorveglianza usa i nostri dati e condiziona la nostra mente, soprattutto quella degli adolescenti. Serve un’etica del digitale.
Dal web libero al capitalismo della sorveglianza
Era il 6 agosto 1991 quando al CERN fu pubblicato il primo sito web della storia. Internet era allora un archivio di documenti, pensato per scopi scientifici e militari. Solo nel 1993 il World Wide Web fu reso accessibile a tutti. Iniziò così la più grande rivoluzione dell’epoca moderna: quella digitale.
Oggi, a trent’anni da quella svolta, Internet non è più uno spazio libero. È una rete globale governata da interessi economici, in cui ogni nostra azione digitale è monitorata, profilata e trasformata in valore di mercato. I social network – da strumenti di connessione a luoghi di esposizione e dipendenza – sono tra i protagonisti di questo cambiamento. Ed è qui che entrano in gioco i nostri figli.
Quando Internet si ferma: il panico globale dei social
Il 4 ottobre 2021, un blackout simultaneo di Instagram, Facebook e WhatsApp ha rivelato quanto siamo diventati dipendenti dalla rete. Milioni di utenti nel mondo si sono sentiti smarriti. Le comunicazioni personali, le attività lavorative, i contatti, perfino i ricordi salvati in chat: tutto improvvisamente irraggiungibile.
“Io ci sono, senza te?”: la domanda non era più rivolta a una persona, ma a una piattaforma. E nella frenesia di quella giornata, molti si sono riversati istericamente su altri social. Come se l’Era digitale avesse reso l’Io reale inconsistente, e la nostra presenza avesse bisogno di conferma virtuale per esistere.
Posto, dunque sono: identità reale e digitale
Il nostro modo di percepire la realtà e noi stessi è cambiato. È cambiato in peggio. La condivisione è diventata condizione necessaria per la validazione personale. Finché non condivido, ciò che accade sembra non esistere davvero. E così anche il dolore, l’amore, la morte, l’ingiustizia diventano contenuti da pubblicare.
Viviamo un paradosso: gridiamo al mondo le nostre battaglie online, ma restiamo inerti quando si tratta di agire nel reale. Postiamo, commentiamo, ci indigniamo. Poi, nel momento della scelta concreta, scriviamo: “Ci sono con il cuore”. Come se bastasse un’emoji per salvare la coscienza.
Il prezzo nascosto del clic: siamo noi il prodotto
Nel libro Connessioni pericolose lo definisco chiaramente: nel web noi siamo il prodotto. Lo sono i nostri clic, i like, le view. Tutto ciò che facciamo è monetizzabile. Le grandi piattaforme non ci offrono servizi gratuiti: ci trasformano in merce. E lo fanno con intelligenze artificiali addestrate a catturare la nostra attenzione e a influenzare i nostri comportamenti: gli algoritmi.
I risultati delle ricerche su Google non sono mai neutri: cambiano da persona a persona, in base alla profilazione. Gli algoritmi costruiscono una bolla su misura che ci fa percepire come vero solo ciò che conferma le nostre idee. E ci manipola.
Adolescenti e web: chi protegge davvero i più fragili?
Il rischio è enorme soprattutto per gli adolescenti. Lo dimostra l’inchiesta del Wall Street Journal su Instagram: tra i giovani che hanno pensato al suicidio, molti hanno associato questa idea all’uso del social. Le più vulnerabili sono le ragazze, costrette a confrontarsi con modelli irraggiungibili di bellezza.
Chi dovrebbe proteggerle? Gli influencer, consapevoli del loro potere comunicativo, potrebbero aiutarle a vedere la bellezza anche nei difetti. Ma troppo spesso alimentano l’illusione di una perfezione estetica tossica. Ed è in questo contesto che la rete diventa trappola, specchio distorto in cui l’identità si frantuma.
Verso un’etica dell’algoritmo e della rete
La frase iniziale del docudrama Netflix The Social Dilemma è di Sofocle: “Niente di così importante entra nelle vite dei mortali senza portare con sé una maledizione”. La rete è una straordinaria risorsa. Ma anche una minaccia, se usata senza consapevolezza e senza regole.
Serve un’etica del digitale. Serve educazione, informazione, responsabilità. Perché il capitalismo della sorveglianza non è un destino. Ma una scelta collettiva. E gli adolescenti, che oggi ci sembrano così bravi con la tecnologia, sono spesso le sue prime vittime. Spetta a noi adulti, se ne siamo capaci, non lasciarli soli in una giungla digitale che conosciamo troppo poco e controlliamo ancora meno.


