Ci sono reati che sono male in sé e non perché sono proibiti. E per chi li compie non deve esserci scappatoia.
L’Aquila, 25 aprile. Arrivo e mi metto in ascolto del “rumore” del silenzio. Ho visto una città che prima delle 03.32 del 6 aprile 2009 era vestita di vita e che oggi è, ancora, come scarnificata. Ho scattato delle foto che vi mostro insieme alle parole di Vincenzo Vittorini e di Stefano Cencioni.
Vincenzo, com’è la sua vita oggi?
Totalmente diversa. Ho per fortuna un figlio che ancora vive. Mia moglie gli ha dato una seconda possibilità convincendolo ad andare in gita scolastica a Milano. Federico voleva stare con noi. Lei e la mia figlia più piccola non ci sono più, lui adesso cerca di vivere al massimo con gli insegnamenti della famiglia che aveva e che sente ancora. Gli serve per andare avanti senza sentire un’oppressione che per un ragazzino di sedici anni è violentissima. Io vivo per dare a mio figlio e a tutti i ragazzi dell’Aquila un futuro roseo, una città vivibile e sicura. Mi batto per questo e perché non si dimentichi. C’è stata una calamità naturale, ma c’è anche la mano dell’uomo alla base delle tragedie e spero che da questa nostra città possa partire un nuovo modo di affrontare le cose che riguardano il mantenimento della vita umana. La prevenzione. So che è difficile, ma se ci siamo, se siamo qui, dobbiamo batterci per le cose fondamentali.
Quali sono i suoi obiettivi?
Far crescere Federico con la libertà di poter scegliere il futuro che merita, che avrebbe avuto se non fosse successo nulla. E fare in modo che il ricordo delle 309 persone che non ce l’hanno fatta sia per sempre. Abbiamo bisogno di una buona amministrazione, onesta e trasparente. Se questa città non sarà ricostruita con la sicurezza antisismica ai massimi livelli non sarà più capace di attrarre né studenti né turisti, gli aquilani andranno altrove e le Vittime saranno morte per niente. Tutti devono capire che fare prevenzione non è una spesa ma un investimento sul futuro. Per questo abbiamo creato la Fondazione 6 Aprile per la vita. Con l’associazione 309 martiri invece vogliamo arrivare alla verità su quanto è accaduto prima del terremoto. Vogliamo fare luce su tanti anni di storia aquilana che hanno portato a questa catastrofe. Sono stati tenuti nei cassetti rapporti come ilBarberi nel quale si chiedeva di mettere in sicurezza proprio quei palazzi che poi sono crollati. O l’Abruzzo Engineering nel quale s’individuava tra gli edifici ad alto rischio anche la Casa dello Studente. Non siamo stati messi nella condizione di scegliere. Eravamo all’oscuro del reale pericolo. Il 20 settembre ci sarà il processo. Non per impiccare qualcuno. Non siamo un gruppo di matti che vuole portare a giudizio delle persone perché non hanno indovinato l’ora del terremoto. Non è un processo alla scienza. E’ un processo a persone che forse hanno sottovalutato la gravità. A cosa serve una Commissione Grandi Rischi se poi una volta individuati non si fa nulla per evitare il peggio? Nessuno ha detto, come hanno fatto in Giappone: “Forse abbiamo sbagliato, cerchiamo di capire dove e ripartiamo da lì”. Se tutti avessero agito al meglio forse almeno una vita si sarebbe salvata e sarebbe stata una vittoria enorme. Il resto sono chiacchiere.
Il 25 giugno all’Aquila ho visto con i miei occhi una città fantasma.
Ma quello che passa è che qui è tutto a posto. Invece il tempo scorre e tutto è fermo. Le erbacce crescono tra le rovine. Allora ti rendi conto che devi lottare…
Stefano come vede l’Aquila futura?
La ricostruzione richiederà almeno trent’anni e per questo dobbiamo immaginare un territorio che tenga presente il passato e il futuro. Il giovane e l’anziano. L’Aquila ha sessantamila abitanti, è una città ma anche un grande paese fatto da microsatelliti che ruotavano entro dieci chilometri dal centro. Dobbiamo riappropriarci anche di queste zone che fanno parte di una storia da tramandare. Io non voglio perdere le mie tradizioni. Voglio poter osservare un monumento antico perché quelli sono gli occhi miei.
A che punto sono i lavori?
La piccola ricostruzione con interventi fino a circa trecentomila euro è partita. Un mio collega è potuto rientrare nella propria casa quindici giorni fa. Io ci rientrerò tra vent’anni? Gli interventi importanti sono fermi. Stanno ancora valutando se abbattere, se ricostruire lì o altrove. Ci sono problemi sulle macerie, sulle ordinanze, sui finanziamenti.
C’è trasparenza?
Non ci sono linee chiare. E se non c’è chiarezza non c’è trasparenza.
Avete trovato un modo per rivivere la città?
No. Ed è devastante. Specialmente per gli anziani che avevano nella città i punti di riferimento: il fruttivendolo di fiducia, la piazza, il bar. Prima sapevi che i tuoi figli scendevano ed erano sotto i portici, oggi devono riqualificarsi altrove. C’è dispersione sociale e solitudine. Dalla piazza reale come centro di aggregazione siamo passati a quella virtuale. Ci incontriamo nei social network, ma non tutti riescono ad accettarlo, l’uso di psicofarmaci è aumentato.
Come si vive nelle C.A.S.E costruite dal Governo?
La grande colpa che do al governo è di non averci coinvolti, di non essersi preoccupato di quello che era il tessuto sociale. Davvero c’era bisogno di tutte quelle abitazioni? O c’era un’economia nazionale ferma da far ripartire? Il progetto è costato circa 2300 euro al metro quadro. Perché non li hanno dati alle famiglie per rimettere a posto le “proprie” di case? Magari con obbligo di restituzione in tot mesi se non si procedeva. Io mi sento come espropriato di un mio bene. Il progetto non risolve tutti i nostri problemi, non ci ridà dignità. Ti senti il diverso della situazione perché hai perso tutto quello che avevi prima. Quasi colpevole di quanto ti è accaduto. Noi siamo usciti senza scarpe e nudi portando fuori i nostri figli. Siamo pronti a tutto. Possiamo ribaltare la nostra vita. Ma nonostante lo spirito combattivo siamo stanchi. Abbiamo fatto errori certo, ma abbiamo bisogno che lo Stato ci aiuti a pensare un futuro come lo vogliamo noi. È Democrazia. Io sono arrabbiato perché non c’è un vero progetto di ricostruzione del territorio. Perché non si fa una legge come per gli altri terremoti che ci dà sicurezza nel futuro? Come possiamo immaginare la città a trent’anni se non sappiamo quanti soldi ci saranno domani? Oggi abbiamo qualche strada più pulita, ma la situazione è immobile e questa immobilità fa male quanto il tremore di quella notte. Come fa male sapere che, se ci fosse stata meno superficialità, alcune persone si sarebbero salvate. Siamo rimasti dentro le nostre abitazioni perché ci avevano detto che potevamo stare tranquilli. Molti di noi hanno perso la vita, altri le persone che amavano, altri ancora, come me, si trovano in un progetto che non è il suo. Oggi cerchiamo chi ha ancora una casa vera per poter passare una sera tra amici, perché in pochi metri quadri non lo puoi fare. Un giorno ho visto uscire dalle C.A.S.E. una sposa. L’ho guardata e ho pensato che forse sua madre per lei aveva in mente qualcosa di diverso…
di Barbara Benedettelli per Vivessere n°8 del 2011 © RIPRODUZIONE RISERVATA
Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
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