Ci sono reati che sono male in sé e non perché sono proibiti. E per chi li compie non deve esserci scappatoia.
Vorrei sentirmi orgogliosa di fare parte di una nazione che non dimentica i suoi cittadini anche quando sono altrove. Vorrei vedere un’ immagine di sanità politica, di rispetto verso la persona.
A parlare e’ Elisabetta Polenghi, sorella di Fabio, fotoreporter scomparso il 19 maggio 2010 a Bangkok, durante l’assalto finale dell’esercito governativo all’accampamento delle camice rosse. Non importa dov’è stato ucciso. Era uno di noi. E la sua famiglia chiede di non essere lasciata sola nella ricerca di una verità difficile da trovare in un contesto sovranazionale.
“Quando sei di fronte a una cosa così grande pensi che trovare la verità sia impossibile. Ma se guardo i filmati che mostrano mio fratello a pochi passi dalla morte, capisco che l’impossibile è possibile. Fabio amava il suo mestiere. Lavorava per dare una giustizia agli altri. Io devo darla a lui”.
Chi indaga sul caso?
“La Thailandia attraverso il Dipartimento per le Indagini Speciali (DSI) e l’Italia che ha aperto un’indagine d’ufficio. Qui ci sono un magistrato e una squadra investigativa che può seguire il caso solo attraverso i documenti che gli arrivano da Bangkok. Però, lo scorso luglio ho scoperto che la DSI aveva scambiato mio fratello per un altro giornalista che era stato ferito qualche giorno prima”.
Ma l’ambasciata non segue da vicino le indagini?
“E’ solo un tramite tra i due Stati. Ricevono informazioni e documenti che poi trasferiscono alla squadra d’indagine italiana e ci possono volere mesi per ottenerli. A oggi il magistrato non ha ancora l’autopsia integrale. Quello che ha l’ho portato io: foto, filmati, testimoni che ho trovato grazie agli amici di Fabio. Finché la DSI non chiude le indagini non si può fare nulla, a meno che non ci sia un intervento politico deciso dello Stato italiano. Marco Midolo, il capo della Cancelleria Consolare, mi ha dato un grande supporto, ma il luogo esatto della morte l’ho scoperto da sola a due giorni dal fatto. Vedi, in aprile era stato ucciso un cameraman della Reuters, Hiro Muramoto. Il Ministro giapponese e i suoi delegati sono andati più volte sul posto. Hanno fatto un minuto di silenzio. Stanno addosso a chi indaga. Io mi devo accontentare della versione che mi dà chi sbaglia caso. Tra gli effetti personali mancavano il casco e la macchina fotografica. Sono stata io a trovare lo scatto che mostra chi l’ha presa. Pochi giorni dopo il fotoreporter Goto Masaru è stato derubato a sua volta della macchina fotografica e del computer. Strano no?”
Com’è morto Fabio?
“Poco dopo il mio arrivo l’ambasciatore Michelangelo Pipan mi ha detto che secondo l’autopsia è stato colpito dall’alto e alle spalle. Un solo colpo, alla schiena, che ha centrato il cuore. Lui era in una delle prime linee a circa un chilometro dall’accampamento dei rossi. Gli spari arrivavano da tutte le parti. Non si capisce perché – ha detto Pipan – Fabio ha attraversato la strada. E’ lì che un cecchino rosso gli ha sparato”.
Ma non era insieme ai rossi?
“Sì, ma pochi e armati solo di fionde e stecche di bamboo. E’ sancito dalle norme internazionali che lo scontro deve essere paritario. Non lo era. Ma non voglio politicizzare Fabio. Rosso, nero, militare. A me interessa accertare una verità che non faccia acqua. Lì in quel momento c’erano molti reporter free-lance. Lui aveva il casco con scritto press. Le fasce al braccio. Il tesserino al collo. Come posso accettare una versione riportata con l’urgenza di definire un quadro che poneva mio fratello in una sorta di folle suicida, e una definizione di rosso o nero prematura rispetto alla complessità della situazione?”
Non puoi.
“Sono stati lesi dei diritti umani”.
Diritti umani, pace, sicurezza. Parole grandi. Dove manca ciò che rappresentano ci sono disperazione, indigenza, un precipizio buio senza fine. E’ mettendo al centro il diritto alla vita, la sua tutela, che si potrà dare ad esse uno status diverso: non più ricerca spasmodica della loro realizzazione, ma certezze immodificabili. Eppure non c’è diritto meno tutelato di questo.
“Il 23 maggio 2010 dov’è morto c’era ancora una macchia di sangue. Poi, mentre ero lì, è passata la macchina che pulisce le strade e ha cancellato tutto. Terribile. Ho pensato: “Meno male che sono qui. Che ho preso il segno”. Quest’anno ci sono tornata da sola. Il guardiano mi ha riconosciuta e io sono scoppiata a piangere. Mi ha aperto un’emozione enorme. E’ strano come ti senti legato a un luogo cosi terribile”.
E alle sue cose.
“Chi ha fatto l’autopsia ha perso i suoi vestiti. Non è giusto. Ho bisogno di sentire il suo odore, di ritrovare la fisicità”.
Isa tu hai visto le fotografie dell’autopsia. Come hai fatto?
“E’ mio fratello, posso guardarle. Fa male, ma c’è bisogno di vedere la realtà per poterla accettare. Su Fb un’amica poco prima che morisse gli ha scritto: “E se ti ammazzano?” “Se mi ammazzano avrò vinto lo stesso io”. Una persona che nel gioco dell’inconscio dice questo, mi sentirei di tradirlo se non andassi avanti, di non avere capito niente di lui. Di non avere condiviso nulla. Invece ci univano un mestiere e un’idea del mondo. Lui è andato lì con tanti altri giornalisti perché c’erano persone disarmate contro un’avanzata militare. Se c’è una responsabilità politica deve venire fuori. Cosa posso fare io da sola? ”
L’onorevole Fedi del PD recentemente ha aperto un’interrogazione parlamentare.
“Spero che porti a un impegno sul posto attivo. Io le ho provate tutte. Mi manca solo l’AIA, ma bisogna compilare un pezzo di carta con domande schematiche e io ancora non riesco a tradurre la vita di mio fratello in un modulo prestampato”.
Una vita piena che continua a dare attraverso il sito, le mostre, le letture pubbliche dei suoi scritti, un concorso e un’associazione dedicata ai fotoreporter free-lance.
Pensa che la provincia di Milano per Fabio ha allargato il premio Baldoni – che viene dato ai reporter viventi – a chi non c’è più. E questo è qualcosa che mio fratello ha dato agli altri, senza esserci”. ©
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Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
Ci sono reati che sono male in sé e non perché sono proibiti. E per chi li compie non deve esserci scappatoia.
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