Uccide il marito: condannata a 3 anni da una giuria di 7 donne.

Carnefice e vittima

Uccide il marito: condannata a 3 anni da una giuria di 7 donne. Violenze mai dimostrate. Quanto ha inciso la giuria prevalentemente femminile sulla sentenza? Due magistrate, un magistrato e una giuria popolare composta da un uomo e ben cinque donne. Cittadini ogni giorno martellati dalla narrazione stereotipata della violenza domestica: la donna è sempre e solo vittima, l’uomo è sempre e solo colpevole. La donna se uccide lo farebbe, secondo questa visione della realtà (distante dalla realtà concreta dei fatti), solo per difendersi.

Ed ecco il verdetto: 3 anni, condanna già scontata. Da omicidio volontario e premeditato a omicidio colposo. Lei è libera, lui è morto ammazzato con un colpo di fucile sparato in testa. La parola di lei (in quanto donna?) è bastata a confermare quella che in sostanza è un’assoluzione. Quanto hanno contato la prevalenza di una giuria femminile e una sensibilizzazione mediatica sul tema della violenza domestica ossessivamente unilaterale?

Vediamo la cronologia dei fatti 

Siamo a Parigi, lui si chiamava Laurent Baca, aveva 37 anni, era allenatore della squadra di calcio giovanile di Saint-Simon. Lei si chiama Édith Scaravetti e di anni ne ha 31; faceva la governante e accudiva i tre figli che nel 2014 (quando il loro padre è stato ucciso) avevano 7, 8 e 9 anni. I vicini di casa li hanno descritti come una coppia simpatica e senza problemi.

Il 7 agosto Edith, con estrema lucidità, porta i figli al centro estivo e più tardi va alla polizia a denunciare la scomparsa di Laurent, dicendo che se ne è andato “senza preavviso o spiegazione”. Ma non è preoccupata perché, dice, non è la prima volta. Potrebbe essere andato a trovare il figlio adolescente avuto da una precedente relazione e avanza l’ipotesi che sia andato a spacciare droghe leggere.

L’11 agosto viene aperto un fascicolo, anche su insistenza della famiglia di lui che trova inusuale se ne sia andato senza dire nulla e senza farsi sentire. I genitori e la sorella sono allarmati. Edith invece è tranquilla e cerca di tranquillizzare anche loro.

Passano tre mesi durante i quali la donna va spesso a casa della famiglia di lui. Quando cominciano a emergere sospetti nei suoi confronti si dice profondamente ferita. Ma i sospetti sono anche di chi indaga e il 20 novembre 2014 viene perquisita la sua abitazione: il corpo di Laurent, in stato avanzato di decomposizione, è murato nella soffitta di casa, che si trova proprio sopra la stanza dei bambini, costretti a dormire per mesi con il fetore del cadavere del loro padre.

A questo punto Edith confessa dando la sua versione dei fatti:

Nella notte tra il 5 e il 6 agosto ci sarebbe stata una lite furiosa. Lui sarebbe arrivato a casa ubriaco, l’avrebbe svegliata urlando, picchiata, scaraventata dalle scale. Poi si sarebbe messo sul divano con il fucile del nonno di lei puntato alla propria tempia. A questo punto l’avrebbe sfidata dicendole di premere il grilletto facendogli vedere se era una vera donna. E lì sarebbe partito un colpo da un fucile che lei pensava fosse scarico. Lui muore, lei pulisce tutto e seppellisce il corpo in giardino. Ne denuncia la scomparsa e poi fa la parte della moglie che aspetta (serena) il ritorno del marito. Dopo tre settimane sposta il corpo in soffitta, perché ha paura che i bambini lo scoprano e comincia a sentirsi il fetore che attira le mosche. Lo avvolge con dei sacchi della spazzatura, chiude tutto con il nastro adesivo e gli versa sopra chili di cemento. Poi continua la sua vita come se nulla fosse, fino al 20 novembre.

E’ qui che comincia a parlare dei presunti maltrattamenti (mai dimostrati). Il giorno seguente viene incarcerata per omicidio volontario. Il pm chiede vent’anni di reclusione. La difesa invece punta sull’incidente e confeziona l’immagine della donna fragile, soggiogata e maltrattata dal marito per anni, che decide di ribellarsi.

Non ci sono certificati medici, né testimonianze o denunce. Ma il racconto è ricco di phatos. Un phatos che emerge chiaramente in tribunale dove la strategia difensiva punta sul ribaltare i ruoli: lei è la vittima, lui il carnefice. Un’immagine che fa a pugni con la freddezza attraverso la quale ha gestito i tre mesi prima della scoperta dell’omicidio.

Comincia l’opera di discredito verso la vera vittima, Laurent, morto ammazzato da un colpo di fucile. Lui purtroppo aveva qualche piccolo precedente penale, di cui aveva già pagato il debito con la giustizia, gli piaceva bere e ogni tanto fumare spinelli. Ma non era alcolizzato, né fisicamente violento come confermano familiari, conoscenti, l’ex compagna e il figlio avuto con lei. I figli avuti con Edith non hanno postumi da violenza assistita e parlano di normali litigi. Ma è stato facile dipingergli addosso l’immagine del mostro.

In quanto a quella notte i figli non hanno sentito niente. Nè le urla di lei,  la ruzzolata dalle scale o lo sparo. La maggiore sostiene di aver salutato il padre al mattino con un bacio, mentre ancora dormiva sul divano, prima di andare al centro estivo. Ma come, non lo aveva ucciso la notte?

Su quel divano poi sono state trovate tracce di sangue lavato. Lì i bambini per tre mesi hanno continuato a sedersi, a giocare, a fare una vita quasi normale con la tristezza nel cuore di un padre che pare averli abbandonati e che invece è murato sopra la loro stanza. Ucciso. Ma come?

La tesi dell’accusa è che l’uomo sia stato ucciso la mattina, a sangue freddo e mentre dormiva, dopo che Edith ha accompagnato i figli al centro estivo.

Durante le indagini è emerso che la donna aveva un amante, con il quale nelle settimane precedenti il delitto si è scambiata centinaia di messaggi e telefonate che certo non la rendono una donna sottomessa. E proprio grazie a uno di questi messaggi Laurent li avrebbe scoperti qualche giorno prima della sua morte, come testimoniato dall’amante che ha ricevuto una telefonata dalla vittima: “Ti rovino!”.

Amante che in seguito alla telefonata decide di troncare la relazione. Ed è qui che secondo l’accusa lei avrebbe cominciato a premeditare il delitto, non accidentale ma volontario. Due ipotesi opposte. Niente prove né in un senso né nell’altro. La sola certezza è un uomo morto e poi trasformato in un mostro. Lo era davvero? Non lo sappiamo. Lui non può più dire la sua. E’ la parola di una donna contro l’idea che abbiamo dell’uomo.

Le prime perizie psichiatriche hanno descritto Edith come una donna infantile e anaffettiva, incapace di provare emozioni e senso di colpa. A vedere la dinamica dei fatti è stata però capacissima di mentire per tre lunghi mesi, sia che lo abbia ucciso accidentalmente sia che gli abbia sparato volontariamente. E, se la tesi dell’accusa fosse quella più attinente alla realtà, avrebbe mentito anche in tribunale, dove è riuscita a commuovere tutti in sintonia perfetta con la sapiente strategia difensiva:

“La nostra cliente ha vissuto un inferno a causa di quest’uomo – dicono i suoi avvocati durante l’arringa -, un vero tiranno domestico che non era mai soddisfatto e non sopportava nulla. Questa donna è stata spinta al limite perché era terrorizzata. Riconosce le sue responsabilità, ma non dubitiamo che le giurie popolari sapranno fare la differenza. Edith è la vera vittima.”

E dirlo di fronte a un morto ammazzato fa un certo effetto. Suona come una legittimazione inaccettabile: sei uomo e in quanto maschio se lei dice che sei violento è così. Vero o non vero ti si può ammazzare. E farla franca. La difesa ha fatto leva sul sentiment popolare distorto dalle imponenti campagne mediatiche che, a livello mondiale, stanno puntando sempre di più il dito sulla violenza maschile negando e nascondendo quella contraria.

Il racconto della vita di Edith mostra uno strazio. Ma non ci sono prove, neanche delle violenze che avrebbe subito da bambina. Questa però è la “verità” che le persone vogliono sentire in linea con l’odierna narrazione stereotipata:

a 12 anni violata in un campeggio; a 15 anni si è presa cura del nonno alcolizzato e con l’Alzheimer; a 17 anni ha incontrato Laurent Baca, che dirigeva una pizzeria e subito dopo ci ha fatto tre figli. Le violenze sarebbero cominciate quando era incinta del secondo. Una verità che anche tutti quelli che la conoscono scoprono solo in tribunale. Mai una parola con nessuno.

In tribunale si sono succeduti testimoni dell’accusa e della difesa. La famiglia, gli amici e i conoscenti di lei vanno dietro alla tesi difensiva. Il fratello di Edith si rammarica di non essergli stato più vicino, ma ammette di non aver mai visto segni di maltrattamenti.

La famiglia, gli amici e i conoscenti di lui lo descrivono come uno che ogni tanto beveva, che aveva un carattere forte, sanguigno, ma era incapace di alzare le mani: “Dopo due, tre bicchieri era il tipo che dorme sul divano. E’ difficile immaginarlo come un tiranno domestico”, dice sua sorella, che era anche la migliore amica di Edith:

“Qualche volta litigavano e lei veniva a casa mia a piangere. Ma non ha mai parlato di violenza, né ho mai visto dei segni. Se lo avesse fatto, sapendo come la penso, lo avrei fermato! Era come una sorella per me. A luglio si sono separati per tre settimane. Poi lei è tornata e si baciavano come adolescenti…”. Una pausa avvenuta, come emerso durante le indagini, per la scoperta del tradimento di lei. Laurent l’aveva perdonata?

Lui non era uno stinco di santo, ma come ha detto la stessa Edith, “era un uomo che soffriva”. Perché? E chi è davvero Edith Scaravetti? La donna offesa, sottomessa, che si ribella fino a uccidere (cosa che non va mai, in ogni caso, giustificata), oppure l’anaffettiva “mantide religiosa” come l’ha definita il padre di Laurent?

Il 20 novembre 2014, quando ha confessato, Edith ha detto di se stessa: “Sono un mostro a sangue freddo”. E se la tesi dell’accusa è corretta, sarebbe l’unico momento in cui avrebbe detto la verità. Una giuria l’ha ritenuta sostanzialmente innocente ma ci sono ancora molte domande irrisolte: perché, se davvero ha colpito per difesa o è stato un incidente, non confessarlo subito? Com’è possibile mantenere un così grande segreto davanti ai familiari di lui, mantenendo freddezza e lucidità se il delitto è stato davvero d’impeto o colposo?

Ma soprattutto, lo ripeto, quanto hanno inciso nel verdetto una giuria in prevalenza femminile e la narrazione stereotipata della violenza domestica? E cosa sarebbe accaduto se i ruoli fossero stati invertiti? Ci troviamo forse di fronte al delitto perfetto?

Barbara Benedettelli

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Uccide il marito: condannata a 3 anni da una giuria tutta al femminile. Quanto hanno contato, su una condanna così mite, la prevalenza di una giuria femminile e una sensibilizzazione mediatica sul tema della violenza domestica ossessivamente unilaterale?
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Barbara Benedettelli

Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.

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