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Un bimbo di appena 6 anni, Alfredo Rampi, il 10 giugno 1981 è caduto in un pozzo artesiano di Vermicino. Avevo tredici anni quando davanti alla Tv, rigorosamente in bianco e nero, soffrivo insieme a tutta Italia per lui, ribattezzato Alfredino. Sofferenza e speranza di fronte a un fatto di cronaca che per la prima volta veniva trasmesso a reti unificate.
Per 18 interminabili ore le telecamere non si sono mai staccate dalla sua agonia, udita da oltre 20 milioni di telespettatori grazie a un microfono calato in quel pozzo largo appena 28cm, ma profondo come l’abisso. Si tentò il recupero con una tavoletta legata a una corda alla quale il bambino avrebbe potuto attaccarsi, ma si bloccò a meno di 30 metri ostruendo il passaggio. Si provò a scavare un pozzo parallelo fino a 34 metri di profondità, ma lui non era lì.
Era giù, ancora più giù, spinto a 60 metri forse proprio dalle vibrazioni delle trivellazioni dell’altro pozzo, quello che avrebbe dovuto salvarlo. L’autista Angelo Licheri, piccolo e magrissimo, riuscì a raggiungerlo e ad allacciargli le corde. Era la notte tra il 12 e il 13 giugno. L’imbracatura però si aprì più volte, allora lo prese per le braccia con una forza tale da spezzargli un polso. Ma Alfredino scivolò ancora più giù. Ci provò Donato Caruso, che non poté far altro che constatare la morte di quello che era diventato il figlio d’Italia.
Adesso di anni ne ho cinquanta e In Italia da allora c’è la Protezione Civile, il sacrificio di Alfredo non è stato vano. Il mondo però è grande e in Thailandia la storia si ripete e questa volta a seguirla sono milioni e milioni di persone. I bambini in bilico tra la vita e la morte sono dodici piccoli calciatori e il loro incauto allenatore.
I primi soccorritori a raggiungerli, mettendo in pericolo le loro vite, li hanno trovati gracili, con i muscoli atrofizzati, ma con la determinazione di non darla vinta al buio. Averli individuati però, come Alfredino insegna, non vuol dire salvezza. Nel passaggio tra l’esterno e la bolla nella quale sono sepolti vivi un sub esperto ieri è morto durante le operazioni di rifornimento.
Per fare i due chilometri che li separano dalla vita ci vogliono 3 ore di nuoto in cunicoli stretti, controcorrente, tra pareti viscide. Trivellare potrebbe smuovere il terreno, persino la roccia, così come spinse ancora più giù Alfredino.
Questi dodici campioni di resistenza sentivano la vita svolgersi fuori, forse era solo un modo della mente di sopportare un buio tombale, forse no. Forse è vero che ci sono cunicoli sconosciuti in grado di salvarli davvero, prima che qualcun altro debba morire da eroe o da vittima di una scelta incosciente.
Il giovane mister lì dentro ha fatto di tutto per tenere in vita quei piccoli affidati a lui e sta già pagando a caro prezzo quella scelta attraverso il senso di colpa. Ma una persona la vita l’ha già persa. Allora fuori da lì, nella speranza che ci arrivino presto e tutti vivi, il giovane Ekapol dovrà assumersi tutte le sue responsabilità. Perché la vita ha un prezzo.
Ma anche per scongiurare i pericoli della contemporaneità, germogliati proprio in quei giorni del 1981 quando tutte le telecamere erano puntate su un’esistenza che abbiamo visto consumarsi in diretta televisiva. Oggi la diretta è amplificata dalla rete, gli smartphone possono registrare ogni istante, subito online. Il rischio di emulazione nell’era dei selfie estremi (che quei ragazzi si erano fatti in passato proprio lì dentro) è concreto per chi pensa che la vita valga meno di un click.
Barbara Benedettelli
Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
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