Ci sono reati che sono male in sé e non perché sono proibiti. E per chi li compie non deve esserci scappatoia.
L’assassino spesso diventa un individuo che ha agito nella completa o nella parziale incapacità di intendere e di volere. Un po’ come quella che proviamo tutti, sostanzialmente, quando ci troviamo nella difficoltà delle scelte che ci presenta la vita. Solo che nell’assassino l’uomo consapevole verrebbe separato da quello istintivo perché, secondo parte della psichiatria forense, «l’Io uccide quando si spezza, per poi integrarsi ancora».
Perché questa momentanea incapacità, così pericolo- sa in quanto imprevedibile, non viene considerata come aggravante? Una volta che si è rivelata nella sua brutalità, perché diminuisce la condanna invece di aumentarla se il nostro sistema penale ha lo scopo di proteggere la società?
Se sono necessarie prove su prove per definire un delitto anche quando c’è una confessione, quando ci sono dei testimoni diretti, quando ci sono le impronte digitali sul manico di un pugnale, perché non è necessaria la prova certa anche di quella momentanea (e presunta) scissione dell’Io? Chi ci assicura che non sia il frutto di una scelta?
L’uomo sa mentire, ma sa anche rimuovere da se stesso quello che potrebbe fargli male, e la colpa fa male. Allora come possiamo esser certi che l’omicidio non sia stato rimosso “dopo”, mentre prima è stato il frutto dell’autodeterminazione? A cosa serve questo gioco assurdo dei contrari che colora di bianco il nero e che riveste il nero di bianco? È il delitto che va giudicato, la sua gravità, il suo riflesso sul mondo. E sulle Vittime.
Un delitto è un delitto, un fatto che è tale al di là di come è stato commesso e da chi. È, per usare le stesse parole che usa la legge per distinguere i reati, male in sé (malum in se) e non male perché proibito (malum quia prohibitum).
Quando a uccidere sono persone che in qualche modo avevano già avuto a che fare con la legge, il senso d’ingiustizia diventa così grande da pesare quanto un macigno. E si posa su tutta la società, che si divide. Ecco che chi si avvicina alle Vittime e con loro chiede giustizia viene definito in senso spregiativo “giustizialista”, vendicativo, colpevole di generare e alimentare violenza.
Ma si tratta di pregiudizi nei confronti di ciò che è invece negazione del male umano, opposizione tenace verso atti inammissibili contro la vita, rifiuto di dover vedere gente che uccide altra gente.
A chi giova negare che la malvagità esiste, e che una volta scoperta va curata e guarita “senza ombra di dubbio”? Siamo noi a dare senso al senso e valore al valore. Qual è il senso che diamo oggi alla vita umana? Quale valore? E alla morte?
Un assassino non può chiedere di cancellare ciò che ha fatto dal tempo dell’esistenza che ci accomuna. E neanche noi possiamo dimenticare.
E qui il ruolo dei mass media trova la sua ragione: accendere i fari sulle vite desolate delle Vittime, per dare loro la possibilità di tornare a essere protagoniste, con quel poco che rimane di una vita ingiustamente stravolta. Loro protestano per le ingiustizie che subiscono e la società non può più fingere di non sapere che cosa accade quando mancano responsabilità, equilibrio, severità, legalità. È lì, davanti a quelle storie tristi che ci ricordiamo di essere fragili, provvisori.
Le cerchiamo con il telecomando per soddisfare il nostro bisogno di conoscere noi stessi e di essere, anche se a “debita distanza”, solidali. Ma subito dopo scappiamo via. Il magone passerà presto, sostituito da un quotidiano così pieno da lasciarci davvero poco tempo per avvicinarci a noi stessi, per vedere il volto del male che si nutre di quell’anima scoperta qualche secolo fa anche nell’assassino.
“Malversazione, abuso, sopraffazione non sono quelli di uno Stato che imprigiona stupratori o assassini, sono quelli che gli stessi compiono.”Non dimentichiamolo quando l’evento è passato. È passato per chi il male lo ha fatto, non per chi lo ha ricevuto.
La nostra Carta costituzionale parla di fine educativo della pena, ma non indica, tra le diverse possibilità offerte dalla pedagogia, quale sia quella preferibile. E non possiamo scambiare la tortura e il trattamento disumano e degradante con la disciplina.
Nel 1975 il legislatore, riformando il sistema penitenziario, ha previsto una serie di offerte trattamentali rieducative personalizzate che tendono a favorire il reinserimento sociale del detenuto a pena espiata. Ma non tutti sono convinti che il sistema, nel suo insieme, funzioni davvero, come il magistrato Federico Tomassi:
I criminologi sono scettici, anzi fanno dell’ironia su que-sto argomento e parlano di «mito della rieducazione» e di «utopia del trattamento carcerario». […] Alcuni parlano di indulgenza criminogena per significare con la parola “indulgenza” tutta la legislazione ispirata al buonismo (come, per esempio, la legge Gozzini, la legge sull’indulto…), e con la parola “criminogena” il fenomeno per cui “più si concede, meno si ottiene” dal punto di vista penale, oppure “a far del bene ci si rimette sempre”.
E poi c’è la rieducazione “apparente”, cioè la buona condotta in carcere, che è un mezzo per ottenere i benefici, buona condotta che può essere simulata.
Affermazioni queste che trovano riscontro troppo spesso nella realtà della cronaca nera. E continuare a negare l’evidenza, di benefici non ne porta a nessuna delle parti in causa. Di certo non possono essere le proteste dei detenuti, se pur sacrosante, a stabilire quale sia la linea da seguire. Non possono essere, almeno, solo queste.
Le tutele legislative nei loro confronti sono notevoli. Basta leggere l’ordinamento penitenziario con un occhio attento all’intera realtà del delitto, per rendersi immediatamente conto dello squilibrio che c’è tra le garanzie degli uni e quelle delle altre.
Un esempio significativo in questo senso lo si può individuare per esempio nell’articolo 45 della legge 26 luglio 1975, numero 354, che riguarda l’assistenza alle famiglie dei detenuti: “Il trattamento dei detenuti e degli internati è integrato da un’azione di assistenza alle loro famiglie.
Tale azione è rivolta anche a conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari e a rimuovere le difficoltà che possono ostacolarne il reinserimento sociale. È utilizzata, all’uopo, la collaborazione degli enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale”.
C’è questa stessa attenzione verso le Vittime? C’è un “Ordinamento per persone colpite dalla violenza” che definisce norme, regole, benefici per chi è stato ingiustamente colpito dalla cattiveria o dalla superficialità altrui? Uno Stato di diritto non deve tutelare i diritti di tutti? Anche e soprattutto degli innocenti? Non deve far prevalere, quando i diritti degli uni e degli altri entrano in conflitto, quelli di chi li ha visti strapparseli via “ingiustamente”?
Barbara Benedettelli @bbenedettelli
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Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
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