Gli uomini che hanno perso la vita per mano di una donna che avrebbe dovuto amarli, nel 2017 sono 19. Le assassine
Gender Pay Gap, che cos’è? C’è davvero discriminazione? “Le donne in Italia sono sempre meno pagate dei maschi”, “Ecco quanto guadagnano meno degli uomini a parità di incarico”, “Ancora oggi le donne vengono pagate meno degli uomini”. Questi titoli di alcune autorevoli testate rispecchiano la realtà?
C’è davvero una discriminazione endemica verso le donne in quanto tali sul lavoro? Può davvero accadere in un paese dove la maggior parte delle professioni è regolata da contratti collettivi e la parità di trattamento è prevista dalla Costituzione e dalla legge (D.Lgs 165/2001, 198/2006, 903/1977, 125/1991)?
Il Gender Pay Gap rappresenta la differenza tra lo stipendio medio degli uomini e delle donne che hanno un lavoro dipendente. Si misura attraverso la differenza tra le retribuzioni orarie medie dei lavoratori di un sesso e dell’altro, espressa come percentuale della retribuzione media oraria lorda maschile.
Alcune fonti mettono in un unico calderone cassieri esperti, part-time e alle prime armi; direttori, segretari, operai, manager di multinazionali; maestri e professori; chi fa straordinari e chi no; chirurghi e infermieri ecc.. Sommano gli stipendi per genere, individuano la linea mediana, la paragonano alla media degli stipendi maschili e il gioco è fatto!
Allora il Gender Pay Gap dà una visione veritiera della realtà per quanto riguarda il salario? Non può. Perché non tiene conto di variabili come i tassi di occupazione, i settori di attività e le mansioni, i congedi, gli straordinari, il part-time (che da solo incide con un -21,3%), ecc..
Ciò che il Gender Pay Gap ci dice è che il mondo femminile ha un reddito inferiore a quello maschile nel suo insieme. Il motivo dipende da fattori quali la scelta del tipo di attività, il tempo che vi si dedica, la continuità nel mondo del lavoro.
Per l’Onu il Gender Pay Gap globale è del 23%. Eurostat lo indica per l’Europa nel 14,1%, per l’Italia nel 4,7%. La società di consulenza aziendale Korn Ferry, che dispone di uno dei più grandi database del mondo con oltre 12,3 milioni di dipendenti in 14.284 aziende di 53 paesi, ha fatto una rilevazione globale e una minuziosa, ottenendo risultati molto diversi.
Confrontando la retribuzione tra i sessi in generale emerge che gli uomini sono pagati in media il 16,1% in più delle donne; valutando lo stesso livello di lavoro (niente calderone), il divario è sceso al 5,3%; valutando stesso livello e stessa azienda si riduce all’1,5%; con stesso livello, stessa azienda e stessa funzione, si arriva allo 0,5%.
La statistica non è matematica, se pure se ne avvale. Cambiano le fonti e le metodologie, cambiano i numeri, che vanno interpretati con molta onestà intellettuale. Mentre la disparità di salario si può rilevare solo confrontando le buste paga di due individui di sesso diverso nella stessa identica condizione lavorativa, per avere un’idea realistica del Gender Gap e comprendere il perché delle diverse scelte dei due sessi con conseguenze sull’autonomia finanziaria, l’Onu ritiene occorrano ben 72 indicatori relativi alle diversità e specificità.
Inoltre è necessario riconoscere la complessa interazione tra sesso e genere, perché uomini e donne non sono solo frutto di stereotipi. Sono anatomicamente diversi, anche a livello cerebrale. Lo dimostra uno studio del National Institute of Mental Health. Grazie a migliaia di risonanze magnetiche, studi di neuroimaging, analisi di tessuti cerebrali di donatori deceduti, lo studio rileva che la diversa anatomia cerebrale incide sui comportamenti e che è improbabile che i fattori ambientali siano primari nel modellare le differenze comportamentali.
E se è così, una quota di Gender Gap è ineliminabile. Per esempio le donne (salvo eccezioni) nell’ambito professionale tendono a tenere un comportamento basato sulle relazioni, mentre gli uomini sono più propensi a puntare sull’individualismo e sull’affermazione di sé. Elementi biologici immutabili e costruzioni sociali vanno a braccetto. Pertanto, se riteniamo che una donna sia più libera di fare le sue scelte se è indipendente economicamente, è giusto attuare politiche che la aiutino a raggiungere quell’indipendenza.
Ma se una donna con un forte istinto materno decide di prendersi cura direttamente dei figli a tempo pieno o part-time, non diciamo che è dovuto alla cultura patriarcale, che in occidente non ha più alcun fondamento legislativo e sociale. La differenza tra il passato e il presente è nella libertà di scegliere.
Una libertà che viene però minata quando, volendo reinserirsi nel mondo del lavoro dopo il parto, mancano i servizi per l’infanzia o per gli anziani non autosufficienti, o sono troppo costosi. Non è un caso se un balzo in avanti nell’occupazione femminile lo abbiamo fatto negli anni ‘70 quando sono nati gli asili nido; o se il tasso di disoccupazione più elevato delle madri lo abbiamo nel Mezzogiorno, dove i posti disponibili nei nidi pubblici e privati non raggiungono il 15% del bacino di utenza.
In realtà, dal mio punto di vista, il problema non è il patriarcato, né la discriminazione, che oggi è residuale. Certo, da combattere ove si verifica, ma non si può ritenere sistemica senza mentire, altrimenti avremmo un mare di vertenze sindacali e di condanne, e non è così. Il problema è nell’insufficienza di chi, non riconoscendo quei fattori biologici che la cultura non può modellare, non mette in atto le politiche di sostegno adeguate.
Se si rifiutano le ragioni biologiche e si ritiene che le donne non debbano stare a casa a prendersi cura dei figli perché ciò equivarrebbe a una “segregazione” forzata, o derivata esclusivamente da uno stereotipo antico, va da sé che non vengono messe in atto le politiche di sostegno necessarie per permettere una determinata scelta. Si spinge invece l’acceleratore verso la direzione di un’ideologia negli ultimi tempi egemonica, che ha l’interesse a mantenere le donne nello stato di inconsapevoli e impotenti vittime dell’uomo oppressore.
Invece, per avere una società più giusta e libera, occorre riconoscere la vera essenza dell’umano, che è un misto di natura e cultura, di maschile e femminile, di differenze complementari. Quindi, va bene ridurre il GPG per far si che le donne si innamorino delle più redditizie discipline STEM, attraverso un incentivo statale milionario alle Università per abbattere le tasse rosa, ma a condizione che si faccia altrettanto per incentivare gli uomini a intraprendere percorsi che li portino verso la bellezza dell’istruzione primaria, dove il Gap azzurro è imbarazzante: secondo i dati del Miur 2017/18, nella scuola dell’infanzia i docenti maschi di ruolo e a tempo determinato sono l’ 1,7%,; il 9,1 nella scuola primaria.
E qui non è certo questione di soldi (gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati d’Europa), ma di capitale umano e di un equilibrio di genere che non deve essere sbilanciato se l’obiettivo è il benessere collettivo. A un’azione per agevolare una parte dell’umanità né deve corrispondere una per agevolare l’altra parte. Se vogliamo ridurre il GPG delle madri che desiderano tornare al lavoro dopo la nascita di un figlio, oltre ai servizi per l’infanzia dobbiamo pensare ai padri.
Dall’1 gennaio 2021 in Spagna i genitori hanno eguale diritto a 16 settimane di congedo non trasferibile pagate al 100%, di cui 6 obbligatorie, le successive facoltative da utilizzare a tempo pieno o part time.
In Norvegia i papà hanno quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% (ne beneficia il 90%). Ed ecco che le mamme che lo vogliono possono dedicare serenamente più ore al lavoro. Mentre i padri possono condividere gioie e dolori di crescere i propri figli.
In Italia, invece, dove le donne passano in media 5 ore al giorno ad occuparsi del lavoro di cura contro 2,5 degli uomini (dati World Economic Forum 2021), i papà hanno appena 10 giorni di congedo obbligatorio remunerato al 100% e vengono chiamati “mammo”. E’ chiaro che nel nostro paese c’è ancora molto da fare su più fronti, a partire dal lavorare sull’Human Gap.
Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
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