Ci sono reati che sono male in sé e non perché sono proibiti. E per chi li compie non deve esserci scappatoia.
Caro Direttore,
vorrei fare un appello: non trasformiamo il padre che ha ucciso i suoi figli in una vittima (Corriere, 17 luglio). Dobbiamo fare un salto morale, a partire dal fatto che non possiamo chiamare amore quello che vuole possedere le vite altrui. Oggi la tutela delle libertà individuali supera il diritto naturale alla vita; dobbiamo avere ben chiara la profondità delle azioni, il loro effetto. Gli atti di Iacovone, tutti, vanno condannati. Vietata la retorica della «pietas» per lui. Sia riversata invece sulle Vittime (quelle vere), i bambini e la loro madre. Iacovone è colpevole. Come lo è lo Stato che attraverso vecchie e nuove leggi, o una loro applicazione troppo suscettibile all’interpretazione dei giudici e alla loro visione del mondo, sta invertendo l’oggetto di tutela, indebolendo il recinto che abbiamo costruito per proteggerci dal lato peggiore di noi stessi. Dobbiamo invece condannare con determinazione chi compie i reati contro la persona, puniti paradossalmente meno di quelli contro il patrimonio. Come se valessimo meno di ciò che possediamo. Iacovone era stato denunciato più volte per stalking, ma nessuno ha pensato che fosse urgente allontanarlo dalla famiglia, anche ricorrendo all’«extrema ratio» del carcere. «Te li porto via e li ammazzo», un’affermazione gravissima di 10 giorni prima della tragedia. Se l’avessero fatta a un deputato, a un ministro, la loro famiglia avrebbe avuto la scorta. Quante persone «normali» invece sono costrette a morire perché inascoltate? In un mondo in cui la parola predomina su tutto, non riconosciamo più in esse una violenza che può diventare solida. Perché si parla troppo e senza responsabilità. E nonostante sia tardiva la denuncia verso la violenza delle parole che vede Calderoli «alla sbarra», è bene che questa denuncia sia arrivata e mi auguro che da ora non si facciano eccezioni né tra i politici, né tra la gente comune. Le parole hanno un peso. Liberiamoci dalla paura di punire, perché come scriveva Bobbio «Malversazione, abuso, sopraffazione non sono quelli di uno Stato che imprigiona stupratori o assassini, sono quelli che gli stessi compiono». Non dimentichiamolo quando l’evento è passato. È passato per chi il male lo ha fatto, non per chi lo ha subito. Quando si parla di certezza della pena non si è giustizialisti, vendicativi. La certezza (come l’immediatezza) della pena è un bene di tutti. È la base dello Stato di diritto. È ciò che distingue la legge da una semplice affermazione. È quello, per usare le parole di Beccaria, che induce gli uomini a non commettere illeciti. Il perdono è un sentimento privato, non può perdonare lo Stato, non può farlo a scapito delle vite innocenti che a causa di quel perdono sono costrette a morire ammazzate.
Barbara Benedettelli
Corriere della Sera 21 luglio 2013
Scarica L’articolo allegato articolo_1_corriere
Barbara Benedettelli è saggista e giornalista pubblicista. Socio fondatore e Vicepresidente dell'Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, da anni è vicina ai familiari delle Vittime dei reati violenti. Attualmente è Assessore a Città di Parabiago (Mi) con delega a Polizia Locale, prevenzione stradale, Protezione Civile e cultura.
Ci sono reati che sono male in sé e non perché sono proibiti. E per chi li compie non deve esserci scappatoia.
L’indulto fa morti. “Ci sia certezza che la pena corrisponda alla condanna e che la condanna corrisponda al reato, perché in questa
Trovo inaccettabile che una società arrivata al lockdown e al coprifuoco – misure tipiche delle guerre, che comprimono al limite della legittimità
“Chi ha il diritto di vivere”, Quem tiem direito ao viver”. Ce lo dice l’ex-terrorista Cesare Battisti. “Chi ha il diritto di